di Cristina Biasini
L’11 marzo, primo giorno del lockdown dell’Italia, Caterina Botti ci invitava a leggere la distanza fisica imposta dall’emergenza sanitaria “non come una tutela di sé, ma come una tutela degli altri, o della stessa possibilità che ci siano ancora, domani, relazioni tra noi e gli altri, come il tentativo […] di limitare il passaggio di un virus che forse a me non fa male, ma può farlo a te o ad altri ancora”. È una lettura che scaturisce da decenni di pensiero femminista e che ha guidato i nostri comportamenti in queste lunghe, dolorose e difficili settimane di quarantena.
Lo ha ribadito Ida Dominijanni su Internazionale qualche giorno fa: “Non è per obbedienza passiva a un ordine imposto, e nemmeno per il terrore di contagiarci, che – in assenza di alternative meno medievali – abbiamo accettato di recluderci, ma per contenere il rischio di contagiare gli altri: era ed è precisamente la salvaguardia del prossimo a richiedere un allentamento della prossimità, un incremento della distanza”.
Lo stesso giorno, il 26 aprile, il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha tenuto la conferenza stampa sulla presunta fase 2. Presunta perché, come è stato osservato da più parti, i cambiamenti annunciati dal 4 maggio in poi hanno poco o nulla a che vedere con ciò che, secondo quanto spiegato in precedenza dallo stesso Conte, avrebbe dovuto caratterizzare la fase 2: la convivenza con il virus, ossia la convivenza con un’epidemia non certo sconfitta, visti tempi lunghi per il vaccino e l’incertezza delle terapie a disposizione, ma sotto controllo.
Cosa significhi tenere sotto controllo l’epidemia di Covid-19 lo abbiamo imparato in queste settimane anche noi incompetenti – noi che sappiamo di non sapere, che riconosciamo l’autorevolezza della scienza, che ci affanniamo nella ricerca di fonti di informazioni affidabili. Continua a leggere