2020: Odissea nelle serie

di Carlotta Cerquetti

Tentata dal tipico compendio di fine anno, ho cercato di ricordarmi di tutte le serie TV viste e apprezzate quest’anno e mi sono accorta di quanto le donne sono state presenti e spesso indimenticabili protagoniste. Anche dietro la macchina da presa. È anche vero che io le serie con le donne alla regia e nella storia me le cerco, per cui sicuramente è un compendio di parte.

Per chi avesse voglia, ecco qualche nota su quello che ho visto e che consiglio.

(Ps: non tutte queste serie sono già disponibili in Italia ma mi auguro lo saranno presto.)

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Per bivacchi di fuochi che dicono fatui

di Viola Lo Moro

Ho cercato nel fondo dell’ora pericolosa pomeridiana dove potesse essere nascosto il mio cuore. Non lo trovavo più se non nei guizzi di angoscia: piccoli e minuti spilli che mi sussurravano un procrastinare infinito. E dopo una decina di giorni di semi clausura riesco a pensare solo alla parola Guaio.
La nominavo un po’ di tempo fa con l’amica sensibile, che mi suggerì di cercarla sul vocabolario.  (Disse: “Cercalo sul dizionario serio però, non google qualcosa”). Guaio è una parola che deriva dal germanico wai e onomatopeicamente ci dice dell’emissione di un suono acuto. Un animale ferito emette un guaito. Da lì, come su una scarpata a discendere, fino ai significati più figurati (ci siamo cacciate in un brutto guaio, dove il termine sta per “impiccio”).

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foto di Viola Lo Moro

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«Sono Paola e vivo l’immobilità da 28 anni»: pensare la fragilità ai tempi della quarantena

di Paola Tricomi

Siamo entrati in un film e, purtroppo, non è finzione. Che la realtà superi l’immaginazione è un dato certo già da molto tempo, ma viverlo sulla propria pelle è un’altra faccenda.
Io sono Paola e vivo l’immobilità da 28 anni, cresce con me. Si chiama SMA (Atrofia Muscolare Spinale) la causa di questa condizione, ma non cambia nulla saperlo. Nel tempo ho sperimentato che sapere, capire non riduce il lavoro di elaborazione che va fatto e non muta il dato del reale. Ho cercato sempre di portare la mia persona alla pari con gli altri e ho amato chi mi ha trattato alla pari, ma è indubbio che lo sforzo a me richiesto per raggiungere tale livello non ha pari. Il mio margine di libertà è quello rintracciabile nello scorrere di un mouse, nel moto di un joystick ultrasensibile, in quello degli occhi e nella parola, ma senza troppo fiato. La mia libertà deve essere vigilata perché ogni moto troppo ripetuto può determinare la perdita dello stesso. Su tutto la consapevolezza di crescere dentro una malattia che toglie sempre più. 

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Stardust Memories: quando un podcast diventa romanzo

di Caterina Venturini

Che il podcast abbia possibilità evidenti di diventare uno tra i generi letterari più interessanti di questo momento, lo si può notare soprattutto in quei lavori che decidono di sperimentare un intreccio di materiali di foggia diversa, tenuti insieme dalla scrittura e dalla voce.
È quanto accade in Stardust Memories, miniserie radiofonica in quattro puntate in uscita il 27 gennaio su Radio Rai 3, scritta da Chloé Barreau con contributi di Matteo Nucci, che potremmo sottotitolare: «Storia di una parigina a Roma».

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L’autrice Chloé Barreau

Nel ’99 Chloé ha vent’anni e un amore da dimenticare, è in vacanza nella città santa con degli amici francesi atei, e come spesso capita per molti innamoramenti, avviene tutto senza preavviso, forse addirittura “per capriccio” come racconta l’autrice e voce narrante. Chloé s’innamora di Roma guardando un ragazzo ballare sul tavolo di un locale a Trastevere, lo Stardust: s’innamora di quella gioia, di quei passi di musica gitana, di quella libertà di movimento e di una socialità che non chiede nulla se non di essere condivisa, o anche solo guardata; un senso tutto italiano di fare gruppo, di godersi la vita o almeno, riuscire a sopportarla meglio. Continua a leggere

«Senza salutare nessuno» di Silvia Dai Pra’: un memoir tra giornalismo e romanzo

di Caterina Venturini

Definire Senza salutare nessuno di Silvia Dai Pra’ un “bel libro” non significa semplicemente usare un’espressione di senso comune, ma apparentarlo a un genere preciso che è quello letterario, l’unico che può e deve permettersi la bellezza intesa come complessità della forma e possibilità (talora) di comprendere più generi in uno: in questo caso il memoir, il reportage giornalistico e il romanzo storico. 

Qualche mese fa il saggio di Walter Siti ha fissato un ulteriore punto sulla differenza tra “Letteratura e giornalismo” (titolo del saggio omonimo), dicendo in sostanza che mentre il giornalismo deve attenersi al vero, ai fatti, la letteratura deve potersi permettere l’ambiguità. Ovviamente il rapporto tra le due ha sempre beneficiato di scambi biunivoci, con una letteratura che negli ultimi tempi ha preso sempre di più dalla biografia (pensiamo nei risultati migliori a Carrère), e con un giornalismo che ha fatto della narrazione forse persino un uso troppo estremo (giustificando un assassino come se ci trovassimo dentro un romanzo: questo è avvenuto soprattutto nei casi di femminicidio). Se dal discorso di Siti, volessimo dunque estrarre una formula, potremmo dire che in letteratura è bello ciò che è ambiguo. Continua a leggere

Leila, la distopia sui legami tra patriarcato e razzismo

Leila Netflix

di Cristina Biasini

“La mia discendenza è il mio destino”. È la frase ripetuta ossessivamente nelle prime puntate di Leila, serie distopica indiana targata Netflix, e in particolare nel campo di rieducazione femminile in cui finisce la protagonista Shalin dopo che un gruppo paramilitare uccide suo marito Riz e rapisce la loro figlia di tre anni, Leila appunto.

Siamo nel 2047 (centenario dell’indipendenza indiana) e il potere è passato nelle mani di Aryavarta, un regime violento e autoritario che si basa su una rinnovata e ancora più stringente divisione in caste della società. Corollario e insieme fondamento di questa vera e propria segregazione sociale, la dura repressione dei matrimoni misti che, con la loro discendenza, attenterebbero alla purezza della razza.

E la piccola Leila è proprio una “sangue misto”, poiché Shalin è indù mentre suo marito è musulmano. Ma la coppia ha anche un’altra colpa (e l’inizio del racconto ci induce a credere che sia questa a provocare l’attacco del gruppo paramilitare): mentre una gravissima crisi idrica impedisce alle caste inferiori addirittura di bere, Shalin e Riz possono permettersi una piscina traboccante di acqua limpida nel seminterrato della loro lussuosa villa. Trasferita nel campo di rieducazione insieme ad altre donne colpevoli come lei di aver danneggiato la purezza della razza, Shalin subisce ogni genere di violenza fisica e psicologica che dovrebbe farla diventare una vera “figlia di Aryavarta”, ma non abbandona neanche per un istante l’obiettivo di ritrovare Leila.

La serie è tratta dall’omonimo romanzo del giornalista indiano Prayaad Akbar (2017) e, anche se Netflix l’ha lanciata definendola un mix tra Hunger Games e V per Vendetta, la prima cosa che viene in mente guardandola è The Handmaid’s Tale: un accostamento che in diversi passaggi sembra voluto anche visivamente, grazie alla cupezza dell’ambientazione e ai colori dominanti – a partire dal rosso degli abiti che le donne sono obbligate a indossare.

È però soprattutto il tema ad accomunare Leila alla serie tratta dal romanzo di Margaret Atwood: autoritarismo e patriarcato vanno a braccetto, si nutrono l’uno dell’altro; tanto che, se al potere si insedia un regime totalitario, le prime a farne le spese sono le donne, e la prima cosa da disciplinare con ogni mezzo è il loro potere di generare.

Un potere che deve essere piegato alle esigenze del regime: nel caso dell’Aryavarta, le donne sono costrette a dar vita a una discendenza di razza “pura”, mentre a Gilead (il violento stato teocratico e patriarcalista di The Handmaid’s Tale) le poche rimaste fertili devono subire l’orrore dello stupro rituale per dare figli alle famiglie dei capi politico-militari. E ancora, a Shalin come a June (la protagonista del romanzo di Atwood) viene brutalmente sottratta la figlia, amata e avuta da un uomo amato: la storia di entrambe racconta la ricerca di una bambina perduta.

Ma ben diverso è il carattere delle due protagoniste. June, infatti, prima di essere costretta al ruolo di ancella si è opposta al nascente regime di Gilead e per tutta la serie persegue – sia pure a fasi alterne – obiettivi sia personali che politici. Shalin no: anche lei è disposta a tutto, certo, tanto da collaborare con la resistenza mettendo a rischio la propria vita, ma il suo unico scopo è ritrovare Leila. Eppure Shalin è un personaggio molto complesso: è sì una vittima di Aryavarta, ma non è innocente; man mano che il racconto procede, in lei si fa strada la consapevolezza di aver contribuito, con la sua adesione a uno stile di vita fondato sul privilegio, alla crisi politico-sociale che ha portato all’instaurazione del regime.

Sul piano narrativo, però, la serie non convince fino in fondo. Sono troppi i passaggi privi di una costruzione adeguata, gli eventi sbucati dal nulla, i personaggi tuttofare, la stessa Shalin che, nonostante sia in pratica una schiava del regime, riesce a fare più o meno quello che vuole – tutti elementi che mettono a dura prova la sospensione dell’incredulità gentilmente concessa dalla spettatrice. Per non parlare del finale, che ha tutto del cliffhanger e nulla della risoluzione: va bene sollecitare il desiderio di una seconda stagione, ma qualche soddisfazione al pubblico bisogna pur darla.

Nonostante questi difetti, secondo me Leila merita di essere vista, e non solo per fare un’incursione nella poco nota produzione di fiction indiana. Come buona parte della narrativa distopica delle e sulle donne, la serie ha infatti la capacità di mostrare le crepe del presente, lanciando l’allarme su libertà, desideri e diritti che in troppe parti del mondo sono messi a rischio dalle politiche patriarcaliste o che, semplicemente, abbiamo dato per scontati. Perché la storia, in barba al mito del progresso che ci hanno propinato insieme agli omogeneizzati, può anche fare marcia indietro.

Maria Lai e l’arte di tenere insieme

di Sara De Simone

Niente all’apparenza era legato. Sedevano separati gli uni dagli altri. E lo sforzo del legare e del fluire e del creare poggiava tutto su di lei. Di nuovo sentì, come un dato di fatto puro, non ostile, la sterilità degli uomini; perché se quello sforzo non lo faceva lei, non lo avrebbe fatto nessuno”
V. Woolf, Al faro
(trad. it. N. Fusini)
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A tutti capita di ferire per errore, per incapacità, per sventatezza. Tutti siamo maldestri con le fragilità, le tenerezze altrui. Ma che qualcuno possa passare il tempo a prendere la mira, non riesco a capirlo ancora oggi. Ogni volta che lo vedo, su di me o sugli altri – questo allenamento all’umiliazione, questa muscolarità dell’offesa, questo gioco al massacro – rimango incredula, confusa, incerta. Com’è possibile studiare la ferita? Impiegare tempo, energia, pensieri per trovare la maglia più lenta, il lembo più scoperto, il punto di rottura? C’è un metodo del dolore, una tecnica della mortificazione, un sistema dell’insulto che mi sconvolge ogni volta, per quanto accada continuamente. Continua a leggere

Visioni Mediterranee

di Chiara Anselmi

La cronaca rende difficile pensare al Mediterraneo senza angoscia. L’UNHCR ammonisce: nel 2018 sono più di 2000 i migranti morti nei naufragi delle imbarcazioni che cercavano di raggiungere le coste europee. Quelle rotte, attualmente le più pericolose del mondo, per millenni hanno messo in relazione popoli e culture, hanno plasmato la nostra identità molto più profondamente di quanto chi ha deciso di trasformare il Mare Nostrum in un gigantesco camposanto sia disposto ad ammettere.

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Feminists: una storia infinita

feministsdi Cecilia D’Elia

Dal 12 ottobre si può vedere su Netflix Femministe, ritratti di un’epoca – titolo originale: Feminists: What Were They Thinking?qui il trailer.

Il racconto della regista Johanna Demetrakas parte da un libro di fotografie di Cynthia MacAdams del 1977, ritratti di donne, artiste, scrittrici, cantanti, attiviste, colte nel momento dell’esplodere del femminismo. Una nuova nascita, così appare nei ricordi delle intervistate, la propria presa di coscienza. Irriducibili singolarità di donne scoprono il proprio valore grazie al femminismo, epifania collettiva del genere. “C’era un’onda e volevo cavalcarla”. A parlare sono Jane Fonda, Gloria Steinem, Lily Tomlin, Judy Chicago, Laurie Anderson, Michelle Phillips, Margaret Prescod, Phyllis Chesler, Anne Waldman, per citarne solo alcune.

Protagoniste della ribellione al modello di virtù femminili, all’educazione domestica. “Donne si diventa”, aveva scritto Simone de Beauvoir nel Secondo sesso, e Jane Fonda ricorda l’esuberanza che ogni ragazza conosce e come questa venga rinchiusa, mortificata, seppellita. “Fai la brava”, è il refrain del disciplinamento continuo. Tutte educate a “guardare i ragazzi da bordo campo” (Celine Kuklowsky). Negli anni 70 la grande rivolta e le ragazze finalmente disobbediscono. Continua a leggere

Io la conoscevo bene

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di Chiara Anselmi

Era il 1965 quando uscì nelle sale Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli. Cinquant’anni dopo la Cineteca Nazionale ce ne ha restituito una copia restaurata, ed è quella che potrete ammirare martedì alla Casa Internazionale delle Donne.

A più di mezzo secolo di distanza il film ci offre uno sguardo impietoso sul sottobosco dei cinematografari della Roma del boom economico e, soprattutto, un ritratto femminile struggente.

Adriana (una giovanissima e splendente Stefania Sandrelli) è una ragazza arrivata nella capitale dalla provincia rurale per inseguire il sogno di una carriera da attrice, in cerca di un’identità prima ancora che del successo. Promiscua e apparentemente imperturbabile intreccia relazioni erotiche con alcuni uomini, illudendosi di essere vista oltre che guardata, sperando in un riconoscimento e venendo inesorabilmente delusa. Continua a leggere