«Sono Paola e vivo l’immobilità da 28 anni»: pensare la fragilità ai tempi della quarantena

di Paola Tricomi

Siamo entrati in un film e, purtroppo, non è finzione. Che la realtà superi l’immaginazione è un dato certo già da molto tempo, ma viverlo sulla propria pelle è un’altra faccenda.
Io sono Paola e vivo l’immobilità da 28 anni, cresce con me. Si chiama SMA (Atrofia Muscolare Spinale) la causa di questa condizione, ma non cambia nulla saperlo. Nel tempo ho sperimentato che sapere, capire non riduce il lavoro di elaborazione che va fatto e non muta il dato del reale. Ho cercato sempre di portare la mia persona alla pari con gli altri e ho amato chi mi ha trattato alla pari, ma è indubbio che lo sforzo a me richiesto per raggiungere tale livello non ha pari. Il mio margine di libertà è quello rintracciabile nello scorrere di un mouse, nel moto di un joystick ultrasensibile, in quello degli occhi e nella parola, ma senza troppo fiato. La mia libertà deve essere vigilata perché ogni moto troppo ripetuto può determinare la perdita dello stesso. Su tutto la consapevolezza di crescere dentro una malattia che toglie sempre più. 

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In questi giorni avverto tra le persone il sentimento di prigionia, l’insofferenza perché per un po’ si dovrà rimanere a casa. Dovrei riderne, io abituata a inverni interminabili chiusa in casa per evitare un banale raffreddore, ma anche abituata ad attendere un’assistente o un parente per alzarmi dal letto, girare una pagina, anche solo grattarmi il naso. Abituata soprattutto a combattere per il riconoscimento di un po’ di autonomia: prendere un gelato con un amico grazie ad un trasporto attrezzato. Naturalmente uscite programmate e contate perché per noi fragili non ci sono mai soldi. Eppure non mi viene da ridere e non riesco a prendere in giro chi si crede in prigione, perché non può andare a prendere l’aperitivo. Constato, come se non vi fosse bastata l’ordinarietà per farlo, l’assenza di empatia, di contezza – se non per rari casi – di cosa sia la vita nelle sue molteplici sfaccettature. Che in pochi non sappiano cosa si provi nel percepire la totale assenza di aria o mancanza di respiro è normale, ma che non riescano ad immaginarlo e a capire quanto sia un’esperienza di coscienza ai confini con il non essere, mi inorridisce. Prevale un vivere in superficie e dunque un’eterna fanciullezza, dal momento che attraversare il fondo dell’esistenza è diventare adulti. Prevale soprattutto il forte sentimento di individualismo, anche se questa esperienza ci ha insegnato quanto oggi più che mai siamo dentro una rete in cui l’azione di ognuno si riflette sull’altro. Vorrei poter dire che per me non è cambiato niente almeno in questi giorni, ma purtroppo non è così. Vivo da reclusa insieme alla mia famiglia senza poter ricevere nessuno. L’assistenza domiciliare è stata sospesa e tutto grava sui miei genitori. Confido nelle loro forze, limitando al minimo le attività per evitare di affaticarli. Per quanto tempo? Quanto durerà? Quanto dureremo? E se qualcuno di noi dovesse ammalarsi, chi ci aiuterà? Ancora in molti si innervosiscono di non poter uscire di casa e si sentono in una prigionia. Io invece penso a quella frase di Francesco Guicciardini: «Le cose al fine si scaricano sopra e’ più deboli, perché non si misurano né con la ragione, né con la discrezione» (Ricordi 144, serie C).
E nel pensarlo, penso a chi non ha neanche le mie libertà: non può parlare, non può muovere neppure un dito o le labbra, non ha autonomia respiratoria e magari ha solo 3 anni. Sono voci silenti, per quanto alte in numero, che non fanno clamore e che sopportano il peso di un destino ingiusto e le scelte di una società scellerata che si dice moderna e non contempla la tutela dei fragili, degne anime sacrificabili sempre, si figuri quando c’è uno stato di emergenza. Ho scoperto nel tempo molte cose però, molte ne scopro e spero di farlo sempre. Scopro che ognuno di noi ha le proprie prigioni, alcune di cui è consapevole, altre di cui lo è meno. La mia personale esperienza mi ricorda che qualunque prigione da cui non sembra esserci via d’uscita, può diventare un’opportunità di trasformazione. Lo strumento che fin da piccola ho istintivamente cercato è stato il lasciarmi trainare da passioni forti che mi conducessero fuori dalle mie quattro mura, prima mentalmente e poi, nei limiti delle possibilità, anche fisicamente. Ma il mio proiettarmi sempre al di là di me stessa è stato solo un viaggio per conoscermi e accettarmi, ritornare abitabile in me. Siamo creature che vivono di scambi, ma gli scambi interpersonali essenziali trovano sempre una via. Si tratta solo di rimodulare il nostro concetto di normale possibilità. Ricordare soprattutto che il più grande strumento di movimento, di viaggio e apertura è la mente, sorretta dalla passione, che etimologicamente, infatti, ha la radice in pàthos, ovvero “movimento, trasporto”. Potrebbe essere il momento giusto, per esempio, di appassionarci un po’ più tutti al dibattito politico che il benessere, nella rilassatezza che dona, ci aveva fatto dimenticare e solo ora si scopre quanto influisca sulla vita quotidiana di tutti noi in termini di libertà e possibilità, ma soprattutto salvezza.

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