di Laura Fano
Mai come in questo periodo di pandemia si sente parlare di cura, concetto declinato in ogni possibile modo, e molto spesso abusato. Il libro Manifesto della Cura. Per una politica dell’interdipendenza scritto dal collettivo inglese The Care Collective, ed edito in Italia da Alegre, ha il merito di riportarlo al suo significato più ampio, radicale e politico possibile. Emerge, da questo testo, un’idea di cura come una visione altra del mondo rispetto alle nostre società devastate dal neoliberismo, un’etica della responsabilità e della condivisione che, nelle parole di Naomi Klein, rappresenta “la pratica e il concetto più radicale che abbiamo oggi a disposizione”.
Il neoliberismo ha trasformato la cura in una pratica individuale e mercificata, riservata solo a chi ha i mezzi per accedervi e prendersi cura di sé. Anche molti servizi sanitari e sociali sono stati privatizzati e resi accessibili solo a quella fetta di popolazione che può permettersi di pagare. Sebbene l’analisi del collettivo parta dal contesto di Regno Unito e Stati Uniti, dove questa privatizzazione ed esternalizzazione di servizi di base è sicuramente più avanzata rispetto al nostro paese, il neoliberismo ha dovunque contribuito a creare una società atomizzata e individualista, dove ognuno deve “curarsi” da solo. Se in questo tipo di società la povertà è una colpa, così il bisogno di cura è visto come una debolezza. Paradossalmente, chi ne fa più uso, i ricchi, non se ne devono vergognare perché possono pagarla, delegando sempre più compiti a badanti, babysitter, giardinieri e lavoratrici domestiche, specialmente migranti, contribuendo a creare una società non solo disuguale, ma anche basata sullo sfruttamento del lavoro di persone straniere e non bianche. Per tutti gli altri regna invece l’incuria, in questo “sistema di solitudine organizzata”.
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