Leila, la distopia sui legami tra patriarcato e razzismo

Leila Netflix

di Cristina Biasini

“La mia discendenza è il mio destino”. È la frase ripetuta ossessivamente nelle prime puntate di Leila, serie distopica indiana targata Netflix, e in particolare nel campo di rieducazione femminile in cui finisce la protagonista Shalin dopo che un gruppo paramilitare uccide suo marito Riz e rapisce la loro figlia di tre anni, Leila appunto.

Siamo nel 2047 (centenario dell’indipendenza indiana) e il potere è passato nelle mani di Aryavarta, un regime violento e autoritario che si basa su una rinnovata e ancora più stringente divisione in caste della società. Corollario e insieme fondamento di questa vera e propria segregazione sociale, la dura repressione dei matrimoni misti che, con la loro discendenza, attenterebbero alla purezza della razza.

E la piccola Leila è proprio una “sangue misto”, poiché Shalin è indù mentre suo marito è musulmano. Ma la coppia ha anche un’altra colpa (e l’inizio del racconto ci induce a credere che sia questa a provocare l’attacco del gruppo paramilitare): mentre una gravissima crisi idrica impedisce alle caste inferiori addirittura di bere, Shalin e Riz possono permettersi una piscina traboccante di acqua limpida nel seminterrato della loro lussuosa villa. Trasferita nel campo di rieducazione insieme ad altre donne colpevoli come lei di aver danneggiato la purezza della razza, Shalin subisce ogni genere di violenza fisica e psicologica che dovrebbe farla diventare una vera “figlia di Aryavarta”, ma non abbandona neanche per un istante l’obiettivo di ritrovare Leila.

La serie è tratta dall’omonimo romanzo del giornalista indiano Prayaad Akbar (2017) e, anche se Netflix l’ha lanciata definendola un mix tra Hunger Games e V per Vendetta, la prima cosa che viene in mente guardandola è The Handmaid’s Tale: un accostamento che in diversi passaggi sembra voluto anche visivamente, grazie alla cupezza dell’ambientazione e ai colori dominanti – a partire dal rosso degli abiti che le donne sono obbligate a indossare.

È però soprattutto il tema ad accomunare Leila alla serie tratta dal romanzo di Margaret Atwood: autoritarismo e patriarcato vanno a braccetto, si nutrono l’uno dell’altro; tanto che, se al potere si insedia un regime totalitario, le prime a farne le spese sono le donne, e la prima cosa da disciplinare con ogni mezzo è il loro potere di generare.

Un potere che deve essere piegato alle esigenze del regime: nel caso dell’Aryavarta, le donne sono costrette a dar vita a una discendenza di razza “pura”, mentre a Gilead (il violento stato teocratico e patriarcalista di The Handmaid’s Tale) le poche rimaste fertili devono subire l’orrore dello stupro rituale per dare figli alle famiglie dei capi politico-militari. E ancora, a Shalin come a June (la protagonista del romanzo di Atwood) viene brutalmente sottratta la figlia, amata e avuta da un uomo amato: la storia di entrambe racconta la ricerca di una bambina perduta.

Ma ben diverso è il carattere delle due protagoniste. June, infatti, prima di essere costretta al ruolo di ancella si è opposta al nascente regime di Gilead e per tutta la serie persegue – sia pure a fasi alterne – obiettivi sia personali che politici. Shalin no: anche lei è disposta a tutto, certo, tanto da collaborare con la resistenza mettendo a rischio la propria vita, ma il suo unico scopo è ritrovare Leila. Eppure Shalin è un personaggio molto complesso: è sì una vittima di Aryavarta, ma non è innocente; man mano che il racconto procede, in lei si fa strada la consapevolezza di aver contribuito, con la sua adesione a uno stile di vita fondato sul privilegio, alla crisi politico-sociale che ha portato all’instaurazione del regime.

Sul piano narrativo, però, la serie non convince fino in fondo. Sono troppi i passaggi privi di una costruzione adeguata, gli eventi sbucati dal nulla, i personaggi tuttofare, la stessa Shalin che, nonostante sia in pratica una schiava del regime, riesce a fare più o meno quello che vuole – tutti elementi che mettono a dura prova la sospensione dell’incredulità gentilmente concessa dalla spettatrice. Per non parlare del finale, che ha tutto del cliffhanger e nulla della risoluzione: va bene sollecitare il desiderio di una seconda stagione, ma qualche soddisfazione al pubblico bisogna pur darla.

Nonostante questi difetti, secondo me Leila merita di essere vista, e non solo per fare un’incursione nella poco nota produzione di fiction indiana. Come buona parte della narrativa distopica delle e sulle donne, la serie ha infatti la capacità di mostrare le crepe del presente, lanciando l’allarme su libertà, desideri e diritti che in troppe parti del mondo sono messi a rischio dalle politiche patriarcaliste o che, semplicemente, abbiamo dato per scontati. Perché la storia, in barba al mito del progresso che ci hanno propinato insieme agli omogeneizzati, può anche fare marcia indietro.