Distanza, prossimità e socialità ai tempi del nuovo coronavirus

di Caterina Botti

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Photo by Andrea Piacquadio from Pexels

Dunque c’è questo evento nuovo per molti aspetti. Ne vorrei indagare uno.
Ci dicono di mantenere le distanze, di rinunciare alle relazioni, alla socialità, di stare a casa.
Vorrei provare a sostenere che, al contrario di quel che può sembrare a prima vista, mantenere le distanze può essere, o perfino è, un modo per accorciarle, per sentire vicino chi ci è lontano; che rinunciare alle relazioni in presenza, alla vicinanza fisica degli altri (per quanto si può), può essere un modo per sentirsi più in relazione con gli altri e non meno, per sentire la comunanza di una condizione, la sua dimensione per l’appunto comune o sociale, per non sentirsi sole e soli.
È una questione di sguardi, delle lenti con cui guardiamo il mondo e ciò che (ci) accade, delle parole con cui lo significhiamo.
E allora una circostanza straordinaria ci permette forse di recuperare quello sfondo così ordinario da risultare spesso invisibile, non visto, non detto, lo sfondo su cui si staglia la nostra singola esistenza, e cioè l’insieme delle relazioni che la rendono possibile. Diventa acutamente visibile, e dicibile, il fatto che dipendiamo gli/le uni/e dagli/lle altri/e, che nessuno vive o si salva da solo. Il che vuol dire anche – per girare in positivo ciò che di nuovo può essere letto a prima vista in modo negativo – che è in nostro potere, nel potere di ciascuno di noi, fare qualcosa per gli altri.
La condizione di vulnerabilità, l’essere letteralmente feribili dagli altri, è stata a lungo pensata, nel pensiero occidentale (almeno da Hobbes in poi), proprio come la condizione da cui uscire attraverso il patto sociale: un patto che garantiva quanto più possibile lo sviluppo individuale in una condizione di non belligeranza, ossia che garantiva quanto più possibile ogni cittadino dagli attacchi interni ed esterni (consegnando, come si sa, il potere di ferire al sovrano, ovvero allo stato, che d’altra parte non esercitava più alcuna autorità ulteriore rispetto a quella riconosciutagli dal consenso dei cittadini). Ma questo paradigma ci ha consegnato un senso di socialità distorto, quello per cui l’essere in società, lungi dall’avere come motivo o fine il mantenimento e la fioritura di ciascuno all’interno di un tessuto connettivo relazionale (inteso, potremmo dire, come bene comune), ha invece come motivo o fine il solo benessere individuale. In un quadro come questo i limiti alla libertà personale in nome del benessere comune, come quelli che oggi ci vengono richiesti, hanno poco spazio: possono essere pensati solo come eccezioni alla regola che ci vuole invece tutti (ma non tutte?) interessati solo a noi stessi e alla nostra libertà, e sono al più leggibili al più come forme di auto-tutela o di convenienza personale.
Del resto il sogno dell’invulnerabilità, dell’indipendenza, della libertà dagli altri, sta al cuore della rappresentazione liberale della socialità, che non è così lontana da quella in cui ci muoviamo (se non consideriamo le torsioni neoliberali). Una socialità che si articola fondamentalmente e paradossalmente intorno alla garanzia del diritto di ciascuno ad essere “lasciato solo” , di poter vivere senza rischi la propria vita secondo il proprio modo, venendo garantito nei propri diritti, nella propria privatezza, dall’interferenza dell’altro, dal giudizio altrui; in una parola di poter essere finalmente sovrano sulla propria mente e sul proprio corpo.
Il pensiero femminista, nelle sue diverse articolazioni, ha già mostrato ampiamente quanto questo paradigma sia miope. L’ha fatto ricordando quanto quella pretesa di indipendenza si sia retta solo sullo sfondo invisibile delle cure prestate dalle donne e da altri soggetti altrettanto invisibili ai (relativamente pochi) cittadini sovrani su se stessi, ed evidenziando come possa risultare molto più interessante, se non necessario, mettere a tema in modo diverso la dimensione relazionale: non fuggendola, ma considerandola invece un elemento cruciale, da coltivare, da praticare, di cui prendersi cura, da mettere al centro delle nostre visioni morali e politiche.
Da questo pensiero, e da tutti gli sviluppi – anche molto diversi – cui ha dato luogo, è dunque forse il caso di ripartire per recuperare un pensiero positivo sulla dimensione della vulnerabilità e relazionalità, per cogliere l’occasione di uno sguardo diverso su quel che accade oggi.
Il tipo di riflessione che ho in mente si distingue, per altro, da altre forme di pensiero critico che, pur illuminanti, non trovo particolarmente perspicue in questo frangente. Penso ad esempio alle linee riflessive che hanno denunciato quanto la rappresentazione della società liberale prima, e neoliberale poi, ci abbia nascosto riguardo a quanto potere i singoli così cedevano al “sovrano”, quello appunto di essere governati, e quali nuove forme questo “governo” abbia preso. Esse certo possono indicarci, oggi, quanto la condizione di solitudine faccia il gioco del potere impersonale che ci governa, e possono aiutarci a vedere nelle relazioni una dimensione sovversiva; ma nell’illuminare i rischi dell’abuso di potere, da parte di chi (ci) governa, sembrano dimenticare quella dimensione di vulnerabilità, di limitata potenza, che accompagna l’umano nella sua singolarità, dimensione che chiama a una responsabilità individuale e condivisa. Tendo a pensare che, in questo momento, contestare la verticalità del potere sui singoli sia meno interessante del tentativo di allargare lo sguardo a quella orizzontalità relazionale di cui sono intessute le nostre vite. (Un tema a sé, non meno interessante, sarebbe quello di guardare come questo stesso potere si stia sfaldando…). Penso del resto che di fronte a questo evento, i cui confini sono ancora così poco chiari, ci sia bisogno anche di chi esercita un sapere (e di potercene fidare), che è certo anche un potere su chi non lo esercita, ma che temo sia oggi ineludibile, così come credo ci sia bisogno di un elemento, ovviamente il più democratico possibile, di coordinamento.
Per questo ritengo che volgerci a certe riflessioni femministe possa essere interessante in questo momento; che questo ci permetta una lettura diversa di ciò che accade, aprendo anche a pensare una possibilità di azione per ciascuno e ciascuna, un modo di stare in questa circostanza straordinaria oserei dire come protagonisti e protagoniste e non solo vittime dell’epidemia o di chi la governa.
Molti sono gli spunti possibili in questo senso, e tanta la ricchezza di pensiero ed esperienze da far valere. Ad esempio ci si può volgere a quelle che mettono a tema il valore delle pratiche e del pensiero della cura.
Penso in particolare alla tanta riflessione che oggi va sotto il nome di “etica della cura” (il riferimento è al concetto espresso in lingua inglese con il verbo to care, difficilmente traducibile in italiano con una parola sola, poiché indica sia uno stato di interessamento e sollecitudine – come nel famoso I care – ma anche la serie di attività che da questo derivano, ed è distinto dal curare nel senso medico del termine, ha assonanze ma non si riduce all’accudire).
Proprio a partire da una concezione degli esseri umani come al contempo bisognosi e capaci di cura, questa visione della morale mette a tema come pratica e disposizione morali centrali quelle di prendersi cura delle reti, più limitate e più ampie, di relazioni in cui ci troviamo immersi. Ci sollecita cioè ad essere porosi, a sentire intimamente le responsabilità che derivano dalla nostra posizione nelle relazioni con gli altri, responsabilità che prendono la forma del nutrire, mantenere e far fiorire quelle stesse relazioni, nella convinzione, come dice ad esempio Carol Gilligan, che “la vita è fatta di rapporti e della cura che vi mettiamo”.
Mantenerci vulnerabili, porosi agli altri, contagiabili emotivamente (come già del resto David Hume prima di Gilligan aveva sostenuto) viene dunque rappresentato come un modo per sentirsi parte, partecipi e quindi solleciti verso gli altri.
Essere contagiabili, in questo senso, diviene metaforicamente una caratteristica positiva e non solo negativa dell’umano. Se infatti è – ovviamente – ciò che ci rende bisognosi di attenzione e cura, d’altra parte – metaforicamente – è ciò che la permette, che ci permette cioè di sentirci coinvolti nel destino altrui, che è anche il nostro, di riconoscerci in una comunità.
Forse questo è un modo per leggere l’evento che ci sta dinnanzi.
Torno a quanto dicevo in apertura: ci viene detto, chiesto, imposto (questo ha ora poca importanza) di mantenerci distanti gli uni dagli altri, di evitare contatti, vicinanza, relazioni sociali più o meno strette. Sembrerebbe la negazione di quel che ho detto, della centralità del mantenere e far vivere le relazioni, ma non lo è.
Dipende da come lo si legge.
La distanza è la negazione della relazione?
Certo, se leggiamo la distanza che mettiamo tra noi e gli altri solo come una forma di auto-tutela, come il tentativo di proteggerci dall’altro che ci infetta, che ci affetta, è la negazione di ogni pensiero o postura relazionale, o sollecita. È la riproposizione dello schema dell’uno contro l’altro. E allora può venire voglia di chiamare all’abbraccio sovversivo.
Ma la distanza che possiamo voler mantenere può essere letta non come una tutela di sé, ma come una tutela degli altri, o della stessa possibilità che ci siano ancora, domani, relazioni tra noi e gli altri, come il tentativo – come ci viene detto – di limitare il passaggio di un virus che forse a me non fa male, ma può farlo a te o ad altri ancora. Mantenere la distanza, cercare di limitare i contatti con gli altri, diviene in questo quadro un modo di sentirsi in relazione agli altri, di pensarli, di sentirli vicini, di sentirci vicini, in qualche modo accomunati da questa situazione (sarà questo il motivo per cui da giorni telefono a tante persone che prima sentivo raramente?). E, d’altra parte, comportarsi in un certo modo piuttosto che in altro, ovvero prestare attenzione al modo in cui ci si comporta, può farci sentire di star facendo qualcosa e di non farlo da soli, ma assieme, assieme ad altre ed altri, magari ora costretti a una piccola o grande distanza.
Certo quanto detto non vuole essere un modo per non considerare i lutti, le difficoltà, la necessità di ripensamento che questo evento ci impone su molti e diversi piani, ma forse indica una delle strade da percorrere. Una strada che, come dicevo, è per altro già da tempo battuta, e che può aiutare per qualche verso a ripensare al modo di stare insieme, a cosa fonda una comunità, a chi ne è parte, e che per esempio ci può permettere non solo di guardare a chi intorno a noi, e con noi, è possibile vittima del coronavirus, ma anche alla nostra intima responsabilità in molte altre situazioni, ad iniziare, per restare al momento, dai siriani ammassati alla frontiere europee.
Fare appello alla nostra capacità (che per certi versi nasce anche dagli affetti e dal piacere che ci danno) di prendersi cura, di vedere gli altri, di pensare al nostro comportamento in relazione agli altri, con tutte le difficoltà che ciò comporta, non è fare appello ai buoni sentimenti, è piuttosto – a mio avviso – un buon modo di articolare la nozione di responsabilità attorno a cui ricostruire anche il nostro senso di socialità.

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  4. “…pensare che, in questo momento, contestare la verticalità del potere sui singoli sia meno interessante del tentativo di allargare lo sguardo a quella orizzontalità relazionale di cui sono intessute le nostre vite.” Mi piace questo suggerimento e apprezzo tutto l’articolo che propone di guardare alla ‘cura’ …anche se internamente sento un furioso senso di ribellione per la costrizione.

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