Tutt* a casa: il domestico-perturbante

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di Giorgia Serughetti

Stiamo a casa, se possiamo, nel mezzo di questa spaventosa epidemia. Mentre gli schermi di smartphone, tablet e pc diventano per molte e molti l’unica finestra sul mondo, da casa si lavora, si fa lezione di matematica, si fanno corsi di ginnastica, musica, maglia o cucina online. Forse questa crisi ci cambierà, quel che certo è che ha già cambiato il significato di quel luogo che per ciascuna e ciascuno è la casa. Non più (solo) luogo dell’intimità, la casa diventa uno spazio aperto a continue incursioni esterne: telefoni che squillano, videochiamate, videoconferenze. E intanto si passa l’aspirapolvere, un bambino piange, il gatto si sdraia sul tappetino per il pilates, dalla cucina arriva rumore di piatti.

C’è qualcosa che viene avvertito come comico, ridicolo, nelle immagini e nei racconti del lavoro da casa di quelle migliaia di persone che vi si trovano costrette per la prima volta a causa del Covid-19. Le foto, i post pubblicati sui social sono pieni di presenze fuori luogo: persone e animali che si affacciano al momento inopportuno, ma anche giocattoli, resti di cibo o vestiti mescolati agli strumenti professionali.

I novelli (e le novelle) homeworkers si ingegnano per garantire una parvenza di compostezza al quadro domestico, ad uso di colleghi, clienti, fornitori, nel timore che il capriccio di un figlio o l’abbaiare di un cane o il rumore delle faccende domestiche possa inficiare la serietà e credibilità del proprio lavoro. C’è qualcosa di osceno in quei frammenti di intimità e domesticità che fanno capolino nell’inquadratura di una videoconferenza, o si fanno udire sullo sfondo di una telefonata. La loro “oscenità” è “in scena” – fa pensare a quell’on/scenity di cui parla Linda Williams a proposito della pornografia che pervade la sfera della rappresentazione, non più tabù, non più fuori scena (off/scene).

Chiunque lavori in un ufficio condiviso è più che avvezzo ai rumori di fondo: i colleghi parlano tra loro o al telefono, nella stanza a fianco si discute animatamente, fuori in strada ci sono i suoni delle riparazioni stradali… tutto questo forse disturba, eppure non perturba. Cosa c’è invece di perturbante in questo affacciarsi del domestico nello spazio pubblico, in questa commistione tra il sé pubblico e il sé privato, costretti a condividere lo stesso setting?

Il perturbante, unheimlich, era per Freud il contrario di heimlich, cioè familiare, intimo, abituale – da heim, casa. Ma perturbante non è semplicemente ciò che è insolito o nuovo: lo è, invece, ciò che è al tempo stesso estraneo e segretamente familiare, cioè che era tenuto nascosto in quanto rimosso, che doveva rimanere segreto e invece riemerge, riaffiora.

Senza addentrarmi in un campo come quello della psicoanalisi, che non è il mio, mi pare però che il concetto di unheimlich torni utile anche nella riflessione politica che potremmo provare ad abbozzare. È chiaro infatti che nell’attuale offuscarsi della linea di separazione tra il privato e il pubblico, ciò che entra in crisi è un intero sistema di rappresentazione, l’ordine non solo spaziale, ma anche simbolico, che orienta la nostra vita associata. E si tratta di un ordine che è tutt’uno con la costruzione dei generi sessuali e delle gerarchie di potere tra di essi.

La distinzione privato/pubblico, con l’assegnazione delle donne al primo ambito, gli uomini al secondo, è stato (ed è ancora in gran parte) un caposaldo della costruzione patriarcale della cittadinanza, a cui concorrono altri dualismi quali natura/cultura, necessità/libertà, emozione/ragione, corpo/mente. Per questo, un simile sistema binario è stato anche il luogo obbligato della critica femminista. Come scrive Carole Pateman in The Disorder of Women, «la dicotomia tra il pubblico e il privato è centrale in quasi due secoli di scritti femministi e di lotta politica; è, in definitiva, ciò su cui verte il movimento femminista».

Non sorprende, allora, che il domestico affiori come un rimosso – familiare e insieme estraneo, appunto perturbante – in uno spazio pubblico fondato sull’esclusione di tutta la dimensione (rappresentata al femminile) della cura e del lavoro riproduttivo della vita. Né sorprende che le donne abbiano cominciato a esplorare la porosità del confine tra casa e lavoro molto prima dell’avvento di questa esperienza collettiva della crisi.

Le donne conoscono da sempre il lavoro da casa. Per molte, la casa non è uno spazio separato da quello del lavoro, o perché ci portiamo il lavoro a casa, o perché abbiamo a casa la nostra postazione di lavoro, oppure (e spesso contemporaneamente) perché svolgiamo in casa una quantità di lavoro non retribuito, domestico e di cura. Proprio dall’esperienza delle donne, in particolare delle homeworkers, si può apprendere molto in questo frangente.

Sandra Burchi, filosofa e sociologa femminista che ha dedicato a questo tema il libro Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico (Franco Angeli, 2014), ci mette in guardia dalla facile retorica del lavoro smart, restituendo un quadro più complesso di fatica, ma anche di invenzione quotidiana e adattamento creativo. Un quadro che – anziché nascosto alla vista – andrebbe consegnato alla rappresentazione pubblica. Come ha scritto di recente su Ingenere: «sarà chiaro dopo questa sperimentazione collettiva che tutta la vita quotidiana ha bisogno di lavoro, di lavoro di cura, di relazione, di assistenza e anche dell’innominabile – e spesso delegato – lavoro domestico, ancora più necessario quando l’ambiente si carica della presenza h24 di tutti i suoi abitanti, fosse solo uno. Averne fatto esperienza in tanti e tante in questi giorni può fornire gli elementi per immaginarsi un futuro davvero agile in cui la possibilità di articolare in maniera flessibile spazi e tempi di lavoro non si risolva nella colonizzazione definitiva dello spazio e del tempo di vita, ma nel riconoscimento di un potenziale che attivi nuovi equilibri e scalzi le gerarchie tradizionali».

I tanti post, meme e video satirici di questi giorni, che ritraggono le persone intente a rigenerare lo spazio lavorativo nel domestico, fanno ridere perché si basano su un classico meccanismo di straniamento o rovesciamento. E ridere è un ottimo modo per far fronte alla difficoltà. Ma se facessimo anche di più, se da questa esperienza inedita di crisi dei confini fisici e simbolici tra le sfere della nostra vita traessimo nuovi stimoli e ragioni per dare una spallata critica all’ordine politico e sociale?

 

 

 

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