Oltre il velo di Silvia

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di Renata Pepicelli

In questi giorni ho scelto di non esprimermi pubblicamente sulla liberazione di Silvia Romano e quello che ne è seguito. Ho preferito aspettare per capire meglio, fermandomi, come ha scritto Annalisa Camilli, sulla soglia di quell’abbraccio potente tra una madre e una figlia finalmente di nuovo insieme. Un abbraccio bellissimo, emozionante, che tuttavia credo che non ci avrebbero dovuto mostrare, data la sua dimensione così intima e privata. Vedendo il dibattito proseguire con inaudita violenza, sento però il bisogno di provare a dire qualcosa anche io. E dire innanzitutto che il ritorno di ostaggi – con le loro storie spesso indicibili – non va dato in pasto alla pubblica opinione. È stato un errore gestire in questo modo il rientro in Italia di Silvia, che sta pagando un alto prezzo per le scelte dissennate altrui e per il suo corpo di donna, di giovane donna, che ha intrapreso percorsi che non appartengono al pensiero e alla pratica comune, sebbene iscritti nel solco di una generazione di giovani che, cresciuti nell’era dei progetti Erasmus, della globalizzazione e della crisi economica, credono che casa possa essere il mondo intero. Giustamente Lea Melandri ha osservato che, se Silvia fosse stata un uomo, non le sarebbe stato riservato il trattamento ignobile con cui è stata accolta al suo rientro in Italia. “Non c’è niente da fare – ha scritto Flavia Perina – : l’uomo che si impegna in un’impresa pericolosa – che si arruoli nella Legione Straniera o coi curdi del Rojava – è un eroe; la donna che aderisce a una causa morale di qualunque tipo è una sventata, una scema, una poveretta inconsapevole e manipolata”.

A causa del persistere di questo sguardo sul mondo, maschilista e coloniale, in poche ore la gioia di una liberazione che si attendeva da tempo, ma che sembrava così difficile ottenere, si è trasformata in un nuovo dolore e in un’occasione persa per tutte/i noi per fare un passo avanti nella comprensione del mondo in cui viviamo. In questi giorni, piuttosto che parlare del corpo di Silvia, si sarebbe innanzitutto dovuto discutere delle ragioni del suo rapimento e del suo rilascio, della situazione geopolitica in cui si è consumata questa storia, dei legami dell’Italia con paesi quali Kenya, Somalia, Turchia, del passato coloniale italiano e dei suoi riflessi sul presente, delle forme della cooperazione internazionale… Poche, troppo poche le voci, tra cui spicca quella di Igiaba Scego, che si sono soffermate a sottolineare la centralità di questi aspetti.

Poi, ma solo poi, si sarebbe potuto discutere anche di veli, parlandone al plurale e non al singolare, e soffermandoci sulle loro evoluzioni nel tempo e nello spazio, che hanno ragioni religiose, tradizionali, geopolitiche. Si sarebbe dovuto parlare di tutto questo, andando oltre Silvia, per comprendere piuttosto cosa i veli esprimono. I veli islamici, come più in generale gli abiti delle donne che vivono in contesti musulmani, come in qualsiasi altro contesto (cristiano, ebraico, ateo…) non sono statici ma si evolvono nel corso degli anni e si differenziano a seconda di contingenze storiche, geografiche, politiche, culturali, e di mode e scelte personali. Nel mondo islamico esistono una pluralità di veli che raccontano di diverse interpretazioni religiose, di storie locali, e di storie globali, di reinvenzione delle tradizioni; che raccontano di donne che hanno scelto liberamente di indossarli, di donne costrette a metterli e di donne, musulmane e praticanti, che scelgono di restare a capo scoperto.

In questi giorni si sarebbe potuto pure discutere di femminismo e di corpi delle donne – come è accaduto – ma lo si sarebbe dovuto fare prestando attenzione anche a quelle prospettive decoloniali, elaborate in contesti altri da quelli bianchi e occidentali, che mostrano come i percorsi di liberazione delle donne siano plurali e passino tanto dallo scoprire i corpi, quanto dal coprirli, e che questi percorsi possano avvenire fuori e dentro contesti religiosi.

Infine di conversione credo che non si sarebbe dovuto parlare, se non tutto al più sussurrando e pesando attentamente le parole. Abbracciare una fede è un affare intimo e delicato, che appartiene alla vita privata di uomini e donne che, per ragioni diverse e spesso imperscrutabili, intraprendono nuovi percorsi di vita e spirituali, e sono loro, se vogliono, a doverne parlare, scegliendo tempi, parole e interlocutori. E invece troppo spesso – è accaduto anche nel caso di Silvia – le conversioni vengono sottratte ai diritti/e interessati/e, e innalzate a vessillo di questa o di quella fazione. Alla notizia che Silvia, durante la sua prigionia, aveva abbracciato l’islam, ci sarebbe voluto rispetto e silenzio. Purtroppo non è andata così, il rispetto e il silenzio sono mancati, e il dibattito sulla vicenda di Silvia Romano ha preso tutta un’altra piega, arrivando addirittura a mettere a repentaglio la sua vita.

Una delle prime frasi che i giornali le hanno attribuito, subito dopo la liberazione, è stata “sono stata forte, ho resistito”; quando l’ho letta ho pensato: “sì Silvia, sei stata forte”, e mi si è riempito il cuore di emozioni pensando a tutte le donne che resistono in situazioni di grandi difficoltà e violenza. Ora però vorrei che Silvia si potesse permettere di non essere forte, di smettere di combattere e di difendersi. Vorrei che potesse cercare il suo percorso di vita liberamente, lontana dallo sguardo violento e intrusivo di un’opinione pubblica irrispettosa e volgare. Nel frattempo, mentre lei fa la sua strada, vorrei che noi ci occupassimo di studiare e decolonizzare i nostri sguardi sull’Africa, l’islam e i corpi delle donne.

3 pensieri su “Oltre il velo di Silvia

  1. Si chiama Patriacato, la forma di potere assoluto sulla Donna e sul Pianeta che ha 6.000 anni (o, forse, 12.000). … e che negli ultimi secoli ha nel Capitalismo il suo braccio armato …

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  2. Concordo sulle riflessioni che, purtroppo, non riguardano solo Silvia o le donne, ma possono riguardare anche moltissime altre forme di comunicazione di notizie, fatte in modo strumentale.

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  3. Pingback: La Rassegna Stampa del CRS - CRS - Centro per la Riforma dello Stato

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