Judith Butler e l’idea di popolo

417cA9q4BtL._SX347_BO1,204,203,200_di Elettra Deiana

L’Alleanza dei corpi è il titolo dell’ultimo libro edito in Italia di Judith Butler, un testo densamente politico in cui la filosofa americana, sulla scia dei grandi raduni collettivi che segnano questa fase storica, affronta temi cruciali della contemporaneità, a cominciare dalle idee di popolo e di democrazia. Chi è davvero “il popolo”, si chiede Butler, fin dalle prime pagine dell’introduzione, e quale operazione di potere discorsivo interviene a circoscrivere il popolo in un determinato momento? E per quale fine? Costruzione storica e insieme sociale, politico-mediatica, simbolica, il popolo non coincide con una popolazione, sottolinea Butler, ma piuttosto è costituito da linee di demarcazione che implicitamente o esplicitamente vengono stabilite da chi e da quanti hanno nelle loro mani il potere del dichiarare e, va aggiunto, spesso quello delle armi. E ogni tentativo di dichiararsi popolo, da parte di un gruppo o di un altro, ha implicita l’idea di questa parzialità, di quell’“esclusione costitutiva” descritta da Chantal Mouffle e Ernesto Laclau, che Butler riprende, e che anche per lei demarca i modi e criteri dell’inclusione entro i confini del popolo.

L’inclusione nel popolo prevede anche l’esclusione dal popolo, come sempre è avvenuto. Chi conti davvero come popolo, e in che modo venga istituito oggi il confine dell’inclusione di chi sia il popolo: questa dovrebbe essere la preoccupazione della democrazia, soprattutto di quella radicale. Il “popolo” oggi è infatti attraversato da faglie e fratture profonde che demarcano spesso grandi distanze, in uno stesso Paese, tra le parti del popolo di serie a e quelle di serie b. E allora, si interroga e interroga Butler, di che popolo parliamo quando parliamo di popolo? E come lo pensiamo o ripensiamo di fronte alla domanda che la nuova politica di strada pone all’attenzione pubblica? Il popolo di Trump e il popolo delle femministe che hanno riempito le piazze e le strade di tutte le più importanti città degli Stati Uniti contro Trump.

Grandi e innumerevoli raduni, fino al giorno prima imprevedibili, all’improvviso e ripetutamente si sono resi protagonisti in questi anni della scena pubblica: dal movimento Occupy e dagli Indignados, a piazza Tahrir e alle “Primavere arabe”, dalle continue manifestazioni che hanno invaso l’ateniese piazza Sintagma a quelle del parco Gezi a Istanbul, e le continue mobilitazioni migranti, queer, femministe, e l’inaspettato e straordinario risultato dello sciopero globale delle donne proclamato per l’Otto marzo di quest’anno dalla rete globale Non Una di Meno. Mobilitazioni, raduni, assembramenti che hanno segnato e segnano in vario modo le vicende del mondo, costringendo a focalizzare – fuori dal campo abituale – l’attenzione dei media.

Corpi in movimento hanno invaso e invadono la scena pubblica, corpi portatori di istanze, che hanno in sé la forza di significare ciò che li attraversa e li muove. Corpi che sono spesso anche in contraddizione tra loro, divisi e fratturati nei particolarismi dell’esistenza, e dunque potenzialmente ostili gli uni agli altri. Ma l’incontrarsi mette in comune la comune vulnerabilità, crea le condizioni di un “noi” dei corpi ricco di potenzialità, che può rideclinare, da un altro punto di vista, la semantica della politica. Dagli Indignados a Podemos, per esempio, da Occupy al successo tra i giovani di Sanders. Corpi che, per questo, non sono in nulla neutri ma abilitati a provocare reazioni diverse, di lontananza o contiguità, di rifiuto o richiamo empatico. Questo accade sempre quando un agire politico, incarnato e non previsto, costringe il dominante sistema politico-mediatico a spostare l’ordine del discorso, a uscire dal campo prefissato del previsto e del conforme per guardare altrove e capire l’imprevisto che si materializza oltre le coordinate mediatiche che esso stesso prescrive come accettabili e invalicabili.

L’alleanza dei corpi è il titolo del libro ma è anche l’idea di fondo che la filosofa americana – a partire dalle sue riflessioni sull’11 settembre e sulla scia degli studi di genere e delle lotte per i diritti delle minoranze sessuali e del mondo LGBTQIA – ha elaborato nel tempo e in questo libro approfondisce, ritornando sui temi della vulnerabilità e della precarietà delle vite, così collegate per lei all’idea di “popolo”. Butler individua nel diritto a essere visibili la leva che i soggetti dell’esclusione – grande realtà sociale e politica della contemporaneità – possono avere a disposizione per ricostruire l’insieme di un “noi”, il “noi” di corpi in movimento che restituisca loro possibilità di nuovi spazi, di nuove opportunità di essere “popolo”, di ripensare l’idea di popolo. Questa l’opportunità della fase, sembra suggerire la filosofa americana.

I poveri, i profughi, le donne, gli stranieri, i disabili, i bisognosi di assistenza, i razzializzati, gli omosessuali, i trans, e altri e altre, compresi i senza potere, che hanno un’altra idea del mondo e quindi non sono annoverabili tra gli indispensabili per il sistema: sono tutte queste le soggettività del popolo negato, dispensato di ruolo, che hanno il diritto di rendersi visibili, passando dalle singole identità alle grandi manifestazioni di massa e al costituirsi di un “noi” che renda evidente il piano dei diritti e della loro insopportabile negazione. Negazione che non viene colta come tale perché spesso naturalizzata, fatta passare per stato delle cose, veicolata dal sistema mediatico e accettata per assuefazione mentale.

Se le condizioni di vita che toccano settori sempre più larghi delle popolazioni mondiali sono segnate dai confini tra le vite che contano e le vite che non contano, tra le vite protette e le vite rese precarie, e se l’invisibilità accompagna il disvalore delle esistenze, è proprio la visibilità nello spazio pubblico la scommessa politica di oggi, a cominciare dall’affermazione pubblica di questo diritto. Butler riprende il concetto della visibilità dell’agire politico, reinterpretandolo nella logica della performatività dei corpi, da Hannah Arendt, che in Vita activa scriveva che “ogni cosa che appare in pubblico può essere vista e udita da tutti e ha la più ampia pubblicità possibile”. La forza delle politica è farsi vedere e fasi sentire nello spazio pubblico.

Passo primo dunque e passo indispensabile, quello dell’essere visibile, anche perché non c’è più – nel confuso disordine del mondo – nessuna narrazione politica che empaticamente preceda i corpi in movimento, non c’è ex ante alcun dispositivo verbale né alcuna performance comunicativa che ricomponga insieme esistenze umane, rese irriconoscibili tra loro dalle logiche perverse della razionalità neoliberale, che dell’ingannevole autosufficienza di ognuno e della competizione di ciascuno con tutti, non a caso ha fatto il magnete del proprio dominio.

Oggi i corpi protagonisti della politica di strada, in assenza di una politica che faccia parlare i corpi, parlano il loro linguaggio, che è corporeo più che verbale, che è iscritto nei corpi e si rende intelligibile per la scelta dei luoghi Occupy, per esempio. E questo è il rovesciamento di quello che accadeva nel Novecento, quando la politica era invasa da maree di corpi in movimento, la cui forza consisteva però soprattutto nella messa in scena pubblica di idee e perfomance comunicative che nella politica dei partiti avevano le loro radici concettuali e la loro semantica. Oggi, nell’epoca della crisi della politica – dei partiti e delle istituzioni che l’hanno incarnata per una lunga fase del Novecento – e mentre si allargano i fenomeni di precarizzazione delle vite, i corpi tornano a occupare la scena pubblica e tutta la partita è soprattutto nella visibilità dei corpi, nel linguaggio dei corpi, nel mostrarsi e nell’abitare i luoghi in cui si accampano, dando prova di resistenza contro il potere e i poteri ingiusti.

Questo essere visibili nel loro stare insieme ricostituisce potenzialmente anche le condizioni di una rinominazione di molte parole che la crisi della politica ha da tempo reso prive di significato e il neoliberalismo ha piegato alle proprie esigenze, rendendole finanche deprecabili. Sono le parole dei grandi processi di emancipazione e di liberazione umana, parole che esprimono nozioni chiave, scrive Butler, come “libertà” e “responsabilità” che oggi appaiono inservibili ma che possono ancora essere reinventate e messe in comune, spesso a partire dal gesto, dalla mimica dei corpi. Perché, scrive Butler, l’azione concertata che caratterizza la resistenza alle ingiustizie e alla negazione dei diritti a volte va ricercata nell’atto verbale o nella lotta eroica ma altre volte nei gesti corporei di rifiuto, silenzio, movimento, immobilità, che dicono anch’essi fortemente dei principi democratici di uguaglianza e dei principi economici di interdipendenza degli umani sul pianeta. E dell’idea di pensare diversamente l’idea di popolo.

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L’Alleanza dei corpi, di Judith Butler, traduzione di Federico Zappino, edizioni Nottetempo 2017

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