Eccentriche #1 – Quel vulcano di Emily

Di Sara De Simone

La rubrica Eccentriche è dedicata a scrittrici, poete, artiste di tutti i tempi che si sono mantenute fuori dal centro, non solo a causa dell’esclusione che per secoli le ha relegate in una posizione marginale, ma anche e soprattutto perché da quello spazio di confine e da quella visione periferica hanno saputo guardare di più, più a fondo, più lontano e raccontare mondi che altri non vedevano e collegare territori che altri tenevano separati.
Nella scelta del titolo hanno agito senz’altro gli echi della Society of Outsiders di Virginia Woolf, ma anche dei Soggetti eccentrici di Teresa de Lauretis, nonché di più recenti volumi come Le eccentriche. Scrittrici del Novecento (Botta, Farnetti, Rimondi) e di chissà quante altre voci e memorie interne.

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William Turner, Mount Vesuvius in Eruption, 1817

La Mia Vita era stata – Un Fucile Carico –
Negli Angoli – finché un Giorno
Il Proprietario passò – Mi identificò –
E Mi portò via –
E ora vaghiamo in Boschi Regali –
E ora cacciamo la Cerva –
E ogni volta che parlo per Lui
Le Montagne subito rispondono –
E basta ch’io sorrida, quale vigorosa luce
Sulla Valle avvampa –
È come se una faccia vesuviana
Avesse liberato il suo piacere […]
trad. it. Giuseppe Ierolli (ultimi 2 vv trad. mia)

My Life had stood – a Loaded Gun – è una delle poesie più celebri di Emily Dickinson ed assurge quasi a manifesto di tutta la sua opera e, potremmo dire, anche della sua vita.
Molti critici si sono interrogati nel tempo sul senso di questo enigmatico e bellissimo componimento: qualcuno ha voluto vedere nella figura del “proprietario” che raccoglie il fucile carico Dio, qualcun altro un uomo, altri illustri – e forse più fini – conoscitori dell’opera della Dickinson come la grande pensatrice femminista, e poeta a sua volta, Adrienne Rich, hanno colto invece nella figura del “proprietario” un riferimento alla poesia stessa, a quel daimon interiore, quel furore creativo che abitò Emily Dickinson fino alla fine dei suoi giorni e che la rese poeta prolificissima.
Il fucile che giace in un angolo, non visto, coi suoi proiettili in canna – simbolo di un’esplosività potente, violenta, pronta a rivelarsi – è trovato, ovvero trova, nell’ispirazione la possibilità di essere maneggiato e di esprimersi nella scrittura, di vagare nei boschi, di avvampare sulla Valle, insomma di liberare sparando i suoi colpi – dunque in un atto anche aggressivo – il suo piacere, il piacere della scrittura.
C’è da dire che i vulcani tornano spesso nella produzione della Dickinson. Ciò che pare affascinarla di più in questa immagine è l’idea dell’enorme potenza eruttiva (e distruttiva) che lavora sotterraneamente mentre fuori, alla luce del giorno, il monte tranquillo si erge, immobile.
È certamente la figura sublime e perturbante per antonomasia, una rappresentazione tipica dei meccanismi creativi dell’artista e al contempo un autoritratto: il vulcano è Emily.

Una silenziosa – Vita – di Vulcano
Che fluttuava nella notte –
Quando era buio abbastanza per fare
A meno della vista che cancella –
Un quieto – Stile di Terremoto –
Troppo sottile per far insospettire
Quelli che vivono da questo lato di Napoli –
Il Nord non sa immaginare
Il Solenne – Torrido – Simbolo –
Le labbra che non mentono mai –
Un sibilare di Coralli che si schiudono –
e si serrano – E Città – dissolvono –
trad. it. Giuseppe Ierolli (ultimi 2 vv trad. mia)

Una silenziosa – vita – di Vulcano: è un verso che descrive perfettamente la natura di questa artista e l’esistenza che condusse. Emily nacque in una famiglia molto in vista, senza dubbio la più influente della piccola Amherst, in Massachusetts, dove duecento anni prima erano approdati i primi antenati Dickinson, partiti dall’Inghilterra alla volta del Nuovo Continente. Qui si erano stabiliti e avevano prosperato, tanto da divenire figure centrali della vita cittadina e non solo.

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Emily Dickinson, dagherrotipo, ca. 1847

Il padre di Emily, Edward, avvocato di successo, ebbe un ruolo di grande spicco nella politica del tempo e viaggiava molto per lavoro. La madre – anche lei si chiamava Emily – che lo aveva sposato riluttante, trascorreva invece la maggior parte delle sue giornate in casa, seduta in poltrona, a causa di una sindrome da stanchezza cronica che le impediva di occuparsi della casa e dei figli.
“Non ho mai avuto una madre. Suppongo che una madre sia quella da cui si corre quando si è preoccupati”, scrive in una lettera la Dickinson…quanto al padre: “Mio Padre, troppo preoccupato delle difese in tribunale – per accorgersi di quello che facciamo – mi compra molti libri – ma mi supplica di non leggerli, perché ha paura che mi scuotano la mente”.
Se con sua madre, omonima, Emily confessa che non ci fu mai una vera “intimità”, con il padre il discorso è molto più complesso perché, per quanto figura pubblica e molto impegnato, Edward fu fin troppo presente nella vita famigliare.
Era temuto, Edward Dickinson, eppure molto amato e per certi versi mitizzato dai figli, in particolare da Emily, a cui riservava particolari attenzioni. Preoccupato per la sua fragilità nervosa, per il suo essere così ricettiva e sensibile, il padre considerò più adeguata una vita tranquilla, a casa, e certo negli anni successivi non favorì nessuna possibile relazione e dunque matrimonio della figlia…anzi delle figlie, perché anche Lavinia rimase, per tutta la vita, vestale di casa Dickinson.

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Emily Dickinson, dagherrotipo, ca. 1859

Ma Emily, il vulcano Emily, non fu comunque la più accondiscendente delle figlie. Ad esempio, non voleva sentir parlare di funzioni religiose, sebbene il padre ricoprisse un ruolo importante anche in quell’ambito, essendo coinvolto nello sviluppo di un nuovo ramo della chiesa puritana, di cui tutti i componenti della famiglia entrarono a far parte.
Emily, invece, per evitare le noiose e a suo parere inutili cerimonie, da ragazzina si nascondeva nello scantinato dove un giorno, ritrovata dopo una lunga sparizione da sua sorella, fu scoperta mentre leggeva il suo libro preferito: “Perché discutere? Non mi andava di venire in Chiesa” aveva commentato semplicemente. Più avanti negli anni, in una lettera ad un amico, scriveva: “Sono tutti religiosi – tranne me – e ogni mattina si rivolgono a un’eclissi – che loro chiamano Padre”.

Sul mio vulcano cresce l’Erba:
Un angolo contemplativo –
Un campo adatto a un Uccello
direbbe l’opinione comune –
Quanto rosso il Fuoco si agiti sotto
Come precaria sia la zolla
Dovessi io svelare
Si popolerebbe di terrore la mia solitudine.
trad. it. mia

Dev’essere così che sente di “dover apparire” al mondo che la circonda, dunque, questa strana creatura, troppo avanti per l’epoca che le aveva dato i natali. Un essere contemplativo, tranquillo, solitario, in comunione con ciò che lo circonda. Il mondo le chiede questo? Cosa chiede il mondo a una donna? E in particolare l’America vittoriana come si aspetta che sia, una donna?

Nella prosa mi chiudono
come quando, bambina,
mi chiudevano dentro lo stanzino,
perché volevano stessi “tranquilla”.
Tranquilla! Avessero potuto sbirciare,
vedere la mia mente che frullava,
tanto sarebbe valso rinchiudere un uccello
per tradimento, dietro uno steccato.
Basta che quello voglia,
e pronto come una stella
guarda dall’alto la sua prigionia
e ne ride. Lo stesso accade a me!
trad. it. M. Bulgheroni

È chiaro che la Dickinson quando parla di prosa non sta semplicemente esprimendo la sua assoluta, connaturata, preferenza per la poesia. Quando parla della prosa in cui sono “gli altri” a rinchiuderla, come in uno sgabuzzino – perché stia zitta, perché stia buona – Emily Dickinson sta parlando della prosa ottusa del mondo.
Quel mondo, sociale e familiare, che per lei prevede un’esistenza da donna del suo tempo: istruita, certo, ma anche quieta, assennata, in linea con i paradigmi e le etichette di una società vittoriana benestante, moralista (e bugiarda).
Eppure lo stanzino, oltre cui l’artista immagina di andare e di sollevarsi con la mente, come l’uccello al di sopra del recinto, è sì il luogo della solitudine e del “confino” ma è anche lo spazio eccentrico della creatività…quello dove, proprio a causa e grazie all’impedimento, la bambina Emily ha come unica risorsa, e dunque anche come occasione, lo sviluppo della propria immaginazione.

Ci sono Vulcani in Sicilia
E in Sud America
A giudicare dalla mia Geografia –
ma ci sono Vulcani più vicini qui
Un gradino di Lava alla volta
Mi sembra di scalare –
Un Cratere io posso contemplare
Il Vesuvio in Casa.
trad. it. Giuseppe Ierolli

Il Vesuvio in casa è Emily, l’artista, che, chiusa nell’apparente quiete della sua stanza, segue i movimenti tellurici della propria creatività ed esplode raffiche di poesia.
Sua è la faccia vesuviana, sue “le labbra che non mentono mai”, suo il cratere che si apre e che si chiude liberando lapilli di piacere: versi esatti, taglienti, inflessibili, selvaggi.
E che nessuno ci venga più a raccontare che l’autrice di queste poesie era una donna verginale, incorporea, diafana, delicatissima…

Curiosità:
Il secondo ritratto pubblicato nell’articolo è un documento ritrovato da pochi anni, la donna a sx pare essere E.D. a 29 anni, più piena in viso, più sorridente, dalle labbra carnose e certamente più morbida e disinvolta tanto da avvolgere il braccio intorno all’amica Kate Scott Turner (a cui per un periodo della sua vita dedicò poesie e alcune lettere d’amore). Nonostante le molte prove ottenute tramite sofisticati mezzi scientifici il ritrovamento ha aperto una disputa lunga e piuttosto aspra tra gli studiosi e non si è riusciti ad arrivare ad un’ufficializzazione. Difficile sostituire l’immagine dell’adolescente eterea con quella di una donna dalla forte presenza fisica?

Buone letture:
Adrienne Rich, Vesuvius at Home: The Power of Emily Dickinson (1976)
Barbara Lanati, Vita di Emily Dickinson. L’alfabeto dell’estasi (1998)
Nadia Fusini, Nomi. Undici scritture al femminile (2012)

Siti utili:
La collezione E. Dickinson dell’Amherst College: https://acdc.amherst.edu/collection/ed
I manoscritti digitalizzati di E. Dickinson: http://www.edickinson.org

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