Che cosa significa imparare a perdere: Elizabeth Bishop, la poesia e le cose che cadono

di Sara De Simone

La vita di Elizabeth Bishop, una delle più grandi poete americane del Novecento, fu costellata di perdite.
Non che ne esista una che non lo è: siamo tutti, ogni giorno, esposti al disastro della scomparsa – nostra, degli altri, perfino degli oggetti.
Quello che cambia, semmai, sono le sequenze e le intensità: ci sono vicende umane in cui la perdita fa da tema costante e principale, batte il ritmo, tiene la trama. Queste esistenze si organizzano intorno ai loro vuoti, ed alle assenze, come certe architetture si sviluppano – e sostengono – a partire da uno spazio cavo.

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Elizabeth Bishop in Brasile nel 1955

Elizabeth Bishop nasce nel 1911, in Massachusetts, e nello stesso anno perde suo padre William a causa di una malattia. Non ci vorrà molto perché “perda” anche sua madre, ricoverata in manicomio e da lì mai più uscita fino alla morte, nel 1934. Elizabeth, così, è costretta a fare il giro dei parenti: prima affidata ai nonni, poi a una zia, i suoi primi anni di vita sono un circuito continuo di distacchi e riadattamenti, affetti perduti e legami nuovi, case lasciate indietro e luoghi estranei a cui doversi abituare.

È di certo anche per questo che, una volta ventenne, dopo essersi laureata in Letteratura, comincia a girovagare per il mondo. Visita l’America in lungo e in largo, e poi l’Africa, e l’Europa, e mentre viaggia, e si sposta, osserva il mondo: è questo andare nel distante e nello sconosciuto a darle vita, è quest’orbita intorno all’altrove a farla incontrare con se stessa.

Muovendosi e decentrandosi continuamente Elizabeth conosce, ama, sperpera il tempo e le energie che ha bisogno di “perdere”, scrive lettere (molte) e poesie (poche). Non si sente produttiva, è pigra, indisciplinata, dice di essere una poeta “per sbaglio”. E in effetti è solo grazie al supporto costante e materno di un’altra poeta straordinaria, Marianne Moore, che a 35 anni riesce a pubblicare la sua prima raccolta, North & South (1946).

Il viaggio più lungo è quello degli anni ‘50 in Brasile: qui trova un paese che la confonde e la fa felice e un grande amore, quello con la spavalda, carismatica, architetta Lota de Macedo Soares. Sia il Brasile che Lota sembrano fare da necessario contrappunto ad Elizabeth: i climi caldi, i frutti pieni di sapore, la vegetazione tropicale fanno riaffiorare in lei, come per contrasto, i paesaggi freddi e perduti dell’infanzia e in tal modo le permettono di scriverne. Così come l’incontro con l’intrepida, teatrale, Lota – tanto diversa da lei, che invece è timida, taciturna, schiva – le fa venire voglia di fermarsi, di restare, e le permette di concentrarsi più a lungo sul lavoro della scrittura.

Come dono d’amore Lota progetta e fa costruire, all’interno della sua proprietà, a Petrópolis, uno studio “tutto per lei”: una specie di rifugio in mattoni bianchi, un luogo pensato e offerto come luogo della scrittura, separato dal resto eppure al resto unito. Non c’è regalo più grande perché – Lota lo ha capito – è proprio così che Elizabeth ha bisogno di sentirsi: a casa ma fuori casa, sola ma insieme, libera ma dentro il legame, distante quel tanto che basta per essere a portata di mano.

È permanendo in questo ‘altrove’ che Elizabeth Bishop vince il premio Pulitzer per la poesia (1955), che continua a pubblicare per anni testi per il giornale The New Yorker, che mette insieme lentamente ma con costanza il suo terzo libro di poesie “Questions of Travel” (1962), che a Lota è dedicato.

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Elizabeth Bishop fuori lo studio costruito per lei da Lota

Ma il tempo della perdita, e con esso quello del viaggio, tornano sempre: dopo sedici anni di intensa relazione Elizabeth perderà anche Lota, suicida nel 1967, e perderà il Brasile, lasciato progressivamente per tornare a vivere in America.

È di tutto questo, e di molto altro, che rende conto la sua poesia più celebre, One Art, pubblicata nella raccolta Geography III (1976). L’Arte in questione non è quella della letteratura, ma per l’appunto quella “di perdere”. Di quest’arte, si capisce, Elizabeth è diventata un’esperta per esperienza.

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The art of losing isn’t hard to master, scrive, l’arte di perdere non è difficile da imparare. Al mondo ci sono così tante cose già gravide dell’intento di essere perdute, che perderle non sarà poi un disastro. Che si tratti delle chiavi di casa, o di un’ora sprecata, di un vecchio orologio di mamma, o addirittura di città, di fiumi e continenti, Elizabeth lo ripete: non sarà mai una catastrofe.
Solo quando nella lista delle cose perdute e perdibili entra un “tu”, la sublime, dolorosa, ironia poetica si ferma per additare la crepa : Even losing you (the jocking voice, a gesture/ I love) – “perfino perdendo te (la voce giocosa, un gesto / che amo)” – l’arte di perdere continuerà a non essere difficile da padroneggiare. Though it may look like (Write it!) like disaster – “per quanto possa sembrare (Scrivilo!) un disastro”.
Per dire della perdita dell’altra che ama, Elizabeth, esperta titolata della mancanza, usa il segno grafico delle parentesi tonde quasi a voler indicare sulla pagina dove sta la maglia che non tiene, dov’è il buco, a passarci le dita intorno per segnarlo, a scriverlo perché (lo deve scrivere!). Così, dentro i versi, l’oggetto amato non cessa di essere perduto ma viene in parte recuperato nella sua “scrivibilità”.

Dal vertice della sua vita “in perdita” Elizabeth Bishop ci dà le parole per dire quello che non sapremmo meglio nominare. Perché, come si mette in parola il vuoto? Una bocca come lo articola? Come si mette il dito su qualcosa che c’è e poi svanisce? Soprattutto se il punto non è solo e non è tanto rievocarne la presenza, ma dirne la scomparsa. Dire tutte le sillabe della caduta, della sua dissolvenza.

Elizabeth Bishop, maestra dell’arte di perdere, lo sa fare. Ma è possibile “imparare a perdere”? Esiste una competenza, una sapienza che col tempo matura, mancanza dopo mancanza? Certo che no. L’ironia con cui Elizabeth ne scrive, lo chiarisce bene. Non si tratta di un manuale di istruzioni per l’uso, né di un cammino filosofico: non c’è nessuna saggezza a cui aspirare, nessun equilibrio da raggiungere. Quella che Elizabeth Bishop ci mostra è piuttosto una postura possibile, un modo di guardare e di attraversare il dolore: se è vero che le cose e le persone che amiamo contengono – ognuna già in sé, come tratteggiata – la parabola della loro scomparsa dalla nostra vita, non per questo le ameremo di meno o vivremo nell’angoscia costante, e paralizzante, della loro perdita.

Che si tratti di smarrire un oggetto caro, o di abbandonare una casa amata, un paese che non rivedremo mai più, un’illusione che ci aveva nutriti, o un amore che non potremo recuperare – sarà sempre un disastro.
Ma un disastro che si può attraversare, se “attraversare” significa che bisogna percorrerlo da un capo all’altro, e lasciarsi percorrere, dare spazio e territorio al dolore.

Non c’è dottrina, Bishop lo sa bene, che ci insegni come si lasciano andare le cose quando è l’ora. E accettare di perdere significa sempre, insieme, accettare di sentirsi perduti.
Ma se la verità è la perdita come non accoglierla nel cuore, nella mente, nella lingua? Se è vero che tutto quello che viviamo dipende dalla narrazione che ne facciamo, potremo forse omettere di raccontarla? A catastrofe avvenuta potremo evitare di dire il crollo? Questo per Elizabeth non è possibile, perché tutto quello che le resta – e che le interessa – è dire la verità, anche quando è la verità della fine.
Anzi è proprio perché si lascia attraversare dalla fine e dal vuoto, che al vuoto fa spazio, che può scrivere la poesia: la parola vera nasce e respira e si muove in quella cavità, senza la cavità ad accoglierla e a covarla la parola vera non nasce. Per questo Elizabeth non commette mai l’errore di pensarsi ininterrotta, piuttosto mette in vista la crepa e celebra la sottrazione.

Con lei e con le sue poesie potremo forse balbettare anche noi le nostre perdite. Provare a dirle. Concederci di provare fino in fondo un’emozione sconcertante, quell’emozione di cui parlava Rilke: lo smarrimento di guardare una cosa felice mentre cade.
E questo non per una fascinazione verso il dramma, né perché imparare a rinunciare sia segno di nobiltà (lo è, a volte, ma non è questo il punto). Soltanto perché le cose sono quelle che sono, e le cose cadono. Vederle cadere sarà sempre un disastro. Ma anche un’emozione profonda, e quindi una trasformazione.

Che cosa significa, allora, imparare a perdere?

Forse significa soltanto godere delle cose che amiamo quando sono vive e presenti, tenere a mente che potremo perderle e per ciò stesso amarle di più, che non vuol dire tenerle più strette ma al contrario: non sentirle mai nostre. Significa provare ad accompagnare una cosa amata mentre cade – senza trattenerla, senza distogliere lo sguardo, senza dire che non cade, se cade. E poi trovare un tempo e un modo per dire la catastrofe. Guardare con vera emozione a ciò che è stato, e a ciò che c’è, per inventare ancora tutta la vita che abbiamo da vivere. E nell’invenzione e nella trasformazione tenere caro, dentro di noi, ciò da cui ci stiamo separando perché:

Il tempo in cui si sta sulla terra
prende e perde innumerevoli forme.
Anche la forma della fine
è una relazione.

E questi sono i versi di un’altra grandissima poeta, italiana e vivente: Sara Ventroni.


* Da leggere:
– Elizabeth Bishop, The Complete Poems: 1927–1979, New York, Farrar, Straus, and Giroux, 1983
– Elizabeth Bishop, Miracolo a colazione, Milano, Adelphi, 2005
– Elizabeth Bishop, Robert Lowell, Scrivere lettere è sempre pericoloso, Milano, Adelphi, 2014
– Nadia Fusini, “Elizabeth, la reticenza” in Nomi. Unidici scritture al femminile, Roma, Donzelli, 2012
– Sara Ventroni, La Sommersione, Nino Aragno, Torino, 2016.

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