di Sara De Simone
Mi è sempre piaciuto l’incipit di quella canzone di Dante in cui il poeta, solo ed esiliato, vede disporsi attorno al proprio cuore tre donne, con cui – tramite l’intermediazione di Amore, che del suo cuore è sovrano – inizia un dialogo.
È un’immagine intima, raccolta, e al contempo dà il senso di una scena, di un débat interieur che si realizza plasticamente nello spazio: «Tre donne intorno al cor mi son venute,/ e seggonsi di fore:/ ché dentro siede Amore,/ lo quale è in segnoria de la mia vita.». Pensando a queste donne, che sono allegorie eppure hanno un corpo – tanto vivo e presente da consentire loro di “sedersi” fisicamente attorno al cuore del poeta – sono riuscita a comprendere meglio la sensazione che mi ha dato l’assistere di nuovo, finalmente, ad alcuni spettacoli dal vivo dopo i lunghi mesi del lockdown.

Prendere parte come spettatori e spettatrici ad un evento artistico è sempre andarsi a sedere attorno al cuore di qualcuno. E al contempo ospitarlo intorno al proprio. Il movimento, lo sappiamo, è doppio e continuo, un farsi visita a vicenda che non esclude squarci e trafitture.
Ho avuto l’occasione di ricominciare ad attraversare lo spazio dello spettacolo dal vivo al Festival di Santarcangelo dei teatri (14-19 luglio, edizione speciale, la cinquantesima) e a Short Theatre (XV edizione, 4-13 settembre, Roma), due realtà che, in maniera diversa, costituiscono ormai da tempo un punto di riferimento per la ricerca e la pratica artistica a livello internazionale. E che quest’anno si sono dimostrate in grado, nonostante tutte le difficoltà del caso, di ospitare programmi ricchi e a fuoco, che tenessero al centro i concetti di comunità, di vulnerabilità e soprattutto, mi sembra, di crisi, in un senso profondo e trasformativo.
La parola «crisi», del resto, deriva dal greco κρίνω, che significa ‘separare, dividere, scegliere’: era il verbo di chi anticamente, raccogliendo il grano dopo la trebbiatura, doveva separare i chicchi dagli scarti, scegliendo “criticamente” cosa tenere e cosa buttare. Niente di più prezioso, quindi: è la crisi che ci consente di selezionare le sostanze nutritive di cui sarà fatto il nostro futuro.
Nelle giornate di questi festival sono sei le donne che si sono sedute intorno al mio cuore. Sei le artiste che mi hanno nutrito di più, e con cui ho sentito di potermi inoltrare di nuovo nell’aperto.
Qui alcuni appunti su ognuna di loro.
Fiorenza Menni
vista in “La mappa del cuore di Lea Melandri” di Ateliersi

Fiorenza Menni, ph. M. Caprilli
Attrice, autrice, e formatrice teatrale, tra le fondatrici della storica formazione “Teatrino Clandestino”, e poi del collettivo di produzione artistica “Ateliersi” – realtà di riferimento per il teatro indipendente in Italia e non solo – Fiorenza Menni torna in scena con un viaggio intimo, poetico e politico attraverso il recupero dello scambio epistolare fra una grande protagonista del femminismo italiano, Lea Melandri, e un nutrito gruppo di adolescenti degni anni ’80, che a lei si rivolgevano all’interno della rubrica “Inquietudini”, presente per alcuni anni sulla rivista per teenagers “Ragazza In”.
“La mappa del cuore di Lea Melandri”, questo il titolo dello spettacolo, scritto e realizzato insieme ad Andrea Mochi Sismondi, porta in scena le inquietudini di una generazione e le risposte – mai prevedibili, mai maternaliste, né giudicanti – di una figura centrale e al contempo fortemente eccentrica del pensiero e della pratica politica delle donne in Italia.
Le questioni messe a tema sono molte, e fondamentali: le lettere delle ragazze e dei ragazzi (sì, alla rubrica scrivevano anche un buon numero di maschi) di cui Menni e Sismondi si fanno portavoce e cassa di risonanza parlano di famiglia, lavoro, amori, ma anche identità, transessualità, carcere. Tutto viene detto, su tutto ci si interroga, con il timore e la sfrontatezza tipici dell’adolescenza che – mentre resiste al mondo degli “adulti” – al contempo ha la freschezza, la curiosità e l’insolenza per entrare in aperto dialogo con una femminista – estranea eppure vicina – che di quel mondo adulto fa parte, seppure in maniera differente e critica.
Quella di Ateliersi è un’intuizione notevole: portare sulla scena, oggi, le speranze, i conflitti, le emozioni dei giovanissimi di più di trent’anni fa significa interrogarsi sul presente andando a tastare le sue radici, ricostruendo i semi che hanno prodotto l’attuale. Si tratta, quindi, di un lavoro di storia culturale e sociale, affrontato però poeticamente, senza didascalismi, aiutato in questo dal profondo anticonformismo di Melandri, dal suo linguaggio fatto di immagini esatte e visionarie al contempo, e dall’autenticità vitale e dolorosa degli adolescenti che a lei si rivolgevano.
I corpi in scena sono tre: quello di Fiorenza Menni, potente ed elettrico, quello di Andrea Mochi Sismondi, sensibile e accorto, e quello della cantante Francesca Pizzo, iconico e vibrante (ma di lei parleremo meglio tra poco). Il progetto gira non solo nei teatri e nei festival, ma anche nelle scuole, nota ulteriore di merito, perché sappiamo consentirà a molti giovani studenti di interrogarsi, senza giudizio e con senso critico, sul proprio paesaggio interiore. Con le scoperte e i deragliamenti che un simile viaggio sentimentale può generare.
L’artista in poche parole: Fiorenza Menni è attrice dalla “presenza assoluta”. In scena ha spesso la funzione di un reattore: gli inneschi nucleari che produce sono controllati eppure a catena. Tutta l’energia dell’azione scenica passa attraverso il suo corpo, che quando è fermo sostiene e alimenta il movimento altrui, e quando è in moto genera scosse e tumulto. Un tumulto da cui in nessun modo ci si vorrebbe difendere.
Prossimi appuntamenti per vederla: 8 ottobre, Oratorio San Filippo Neri, Bologna; 25-26-27 novembre, Atelier Sì, Bologna.
Francesca Pizzo
vista in “La mappa del cuore di Lea Melandri” di Ateliersi

Classe 1981, cantante e performer, in arte Cristallo, nome del progetto artistico di cui è frontwoman e che porta avanti dal 2018 (precedentemente nota come “Melampus”, insieme ad Angelo Casarrubia). Dal 2016 collabora con Ateliersi, con cui è andata in scena più volte. In La mappa del cuore di Lea Melandri, Francesca Pizzo ha un ruolo centrale: quello dell’icona.
In lei, che cantando ci accompagna per tutta la durata dell’azione scenica, confluiscono infatti tutti gli elementi simbolici dello spettacolo. Pizzo è, in prima battuta, figura cristologica che allargando le braccia tiene per mano Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, e in seguito, sempre più chiaramente, personificazione dell’idolo adolescenziale: è lei che per circa un’ora interpreta, quasi senza interruzioni, i grandi successi dei Duran Duran che fanno da colonna sonora a “La mappa del cuore”.
Ma la particolarità di Francesca Pizzo – finemente intuita e messa a frutto da Menni e Sismondi – è la capacità di essere sia idolo – appunto, manifestazione concreta e credibile del gruppo di culto degli adolescenti anni ’80 – che Eidolon, nel senso greco e più antico del termine, ovvero rappresentazione fantasmatica, figura di sogno, immagine non del tutto vera e non del tutto falsa che, facendosi visibile, porta in scena il lontano, l’assenza, l’evocazione. Evocazione di sentimenti, angosce, desideri di una giovane generazione passata, che pure si presentifica, e attraverso “la figura” torna a parlare. Parlare con le parole che a quella generazione parlavano: quelle dei testi dei Duran Duran. “Don’t save a prayer for me now/ Save it ’till the morning after”, recita il successo pop del gruppo britannico, e così canta Francesca Pizzo, straordinariamente dotata, tanto da – non abbiamo paura a dirlo – riuscire a superare in più punti l’originale (grazie anche al notevole lavoro di riscrittura e arrangiamento dei musicisti Vincenzo Scorza e Mauro Sommavilla).
Ma non basta: Francesca Pizzo è anche il “coro” de “La mappa del cuore”, quel “personaggio collettivo” che nel teatro classico interviene a commentare l’azione scenica e che – dal fondo del palcoscenico – sottolinea, abbassa, innalza, chiosa le parole dei due attori protagonisti. E non è finita qui.
Quando lo spettacolo volge al termine, Francesca Pizzo ci appare anche, per un attimo, come la dea ex machina de “La mappa del cuore”: è a lei che Menni e Sismondi affidano, con intelligenza drammaturgica, il compito di risolvere (non risolvendolo) lo spettacolo. Nessuna carrucola a sollevarla (Pizzo è già olimpica di suo) la cantante sembra pronta ad affidare al pubblico un ultimo, decisivo, messaggio sonoro: “Heads turning as the lights flashing out/ are so bright…” ma le parole , d’improvviso s’interrompono. Le luci si spengono. Francesca Pizzo, che ci sembrava Apollo – voilà! – è diventata la Pizia. Quando si dice un coup de théâtre.
L’artista in poche parole: Francesca Pizzo ha un corpo da creatura superna. Lo muove con equilibrio, e pure nella continua allusione a qualcosa che non riusciamo ad afferrare. La voce ha un’estetica minimale ma ipnotica: le parole, scandite con cura, quasi compitate, si caricano ora di mistero, ora di malinconia. Talvolta di oscuro dolore, cui si assiste impreparati e insieme riconoscenti.
Prossimi appuntamenti per vederla: 25 settembre, Cristallo in concerto al Gogobo Festival, Bologna. In “La mappa del cuore di Lea Melandri”: 8 ottobre, Oratorio San Filippo Neri, Bologna; 25-26-27 novembre, Atelier Sì, Bologna.
Eleonora Sedioli
vista in “Luce” di Masque Teatro

Eleonora Sedioli, danzatrice e performer, inizia a collaborare con la storica compagnia Masque a partire dal 1998, fino a diventarne, con il fondatore Lorenzo Bazzocchi, nucleo elettrico e propulsore. Aggettivi quanto mai appropriati per il lavoro di Masque Teatro, estremamente riconoscibile proprio per la focalizzazione sulla messinscena della continua tensione tra potenza naturale, sapienza tecnica e pensiero filosofico-poetico.
Eleonora Sedioli è creatura poetica per antonomasia, da intendersi nel suo senso etimologico, da poiéō, verbo che indica la componente fattiva, manuale, quasi “manifatturiera”, dell’atto creativo. L’artista romagnola si muove infatti tra danza, performance e notevoli competenze tecniche, che insieme a Bazzocchi mette a frutto nella realizzazione di dispositivi meccanici e complesse architetture teatrali.
In “Luce”, Eleonora Sedioli, posizionata di spalle su un piedistallo metallico, interagisce con le scariche elettriche di due bobine ad alta tensione (Tesla Coils) costruite dai Masque seguendo scrupolosamente i progetti originari di Nikola Tesla (1856-1943), scienziato geniale e visionario, non sempre compreso, quando non osteggiato, dai suoi contemporanei.
Il corpo nudo di Eleonora Sedioli si staglia in uno spazio totale, archetipico, fatto di buio, fumo e improvvisi lampi di luce in cui la creatura umana – primitiva, vulnerabile – sembra confrontarsi con la potenza indomabile degli elementi naturali. Ma poi, il meccanismo si chiarisce: gli elementi naturali sono in realtà controllati e ricreati dalla sapienza umana. Sedioli è in un teatro di rappresentazioni che mette insieme la nuda vita e l’antropotecnica, la gettatezza creaturale (Geworfenheit) e la manipolazione scientifica degli elementi, Anànke – la Necessità che governa la Natura – e Tèchne – la tecnica umana che la modifica.
Quando gli 8 minuti di tempo-senza tempo della performance giungono al termine le scariche si esauriscono, e il corpo di Eleonora Sedioli torna nel buio. Si resta così, fermi, in silenzio. A fissare quel Nulla dopo la tempesta.
L’artista in poche parole: Il corpo di Eleonora Sedioli è un corpo primitivo, sintonizzato sulle frequenze più remote e profonde dell’esistenza umana (e non). Corpo perturbante, vigoroso, atletico, in grado di assumere posture plastiche complesse, mantenute con la massima concentrazione e disciplina. In lei energia fisica e spirituale coincidono: è nell’estrema esposizione anatomica che Eleonora Sedioli ci fa intravedere, continuamente, la sua anima.
Prossimi appuntamenti per vederla: 16 e 17 ottobre, in “Kiva, Periferico Festival, Modena.
Giorgina Pi
vista alla regia di “Tiresias”, con Gabriele Portoghese

Regista romana, con una formazione internazionale, Giorgina Pi è fondatrice del collettivo artistico Angelo Mai e di Bluemotion, con cui realizza produzioni teatrali a partire dal 2007. Studiosa ed assidua frequentatrice del teatro inglese, quest’anno è alla sua seconda messinscena di un testo di Kae Tempest, giovane rapper e poeta, figura di spicco della scena culturale britannica.
Potremmo definire Tiresias come il “soggetto nomade” di Giorgina Pi.
Alla ricchezza letteraria, linguistica (ben resa dalla traduzione di Riccardo Duranti) e immaginifica del testo di Tempest, Giorgina Pi aggiunge infatti il suo sguardo politico e filosofico. L’originale riscrittura tempestiana del mito di Tiresia – già informata delle problematizzazioni e delle urgenze che il dibattito identitario contemporaneo propone e/o impone – si arricchisce così di un approccio più maturo, quello della regista, che maneggia il testo con la lente della sua esperienza di teoria e pratica femminista.
In un’epoca di identità fluide a tutti i costi – in cui la categoria di “fluidity” sempre più spesso si manifesta, più che come utile decostruzione di logiche dicotomiche, come doloroso malinteso della vulgata queer, che apre la strada a nuovi soggetti neutri – Giorgina Pi calibra il discorso identitario a partire dall’invito di Kae Tempest a “restare se stessi” (“Hold your own”).
Ma che cosa significa “restare se stessi”? Non certo rimanere “uguali a se stessi”. Lo chiarisce con efficacia una delle battute finali dello spettacolo, affidata alla notevole interpretazione dell’attore Gabriele Portoghese: «Tiresia, sei restato te stesso. Ogni te stesso che sei stato».
È in questo che ci sembra Tiresias somigli al soggetto nomade di Rosi Braidotti, un essere che muta, che è in continuo divenire, ma che mantiene, pur nella metamorfosi, una costante: quella di essere un soggetto sempre incarnato e situato. Non volatile, non fluido, non neutro, ma sempre sessuato e “differente”, ovvero in una dialettica aperta e vitale con le differenze che lo circondano, fuori, ma anche con quelle che lo abitano, dentro.
È per questo che Tiresias, proprio come il soggetto nomade, è in grado di essere «fedele» a tutti i se stesso che è stato. Le parole di Braidotti in questo senso sono chiare: «il soggetto nomade ha un rapporto di rielaborazione costante delle proprie origini. […] Anzi, queste molteplici appartenenze hanno come effetto paradossale di rendere ancora più acuto e vitale il suo senso di fedeltà verso le molte vite vissute e i sentieri incrociati delle molte vite virtuali.».
Ci pare una operazione importante, quella di Giorgina Pi, che con il suo spettacolo riesce ad inserirsi in un dibattito estremamente attuale e complesso tra i femminismi: lo fa poeticamente, ma anche politicamente, forse al di là di alcune intenzioni di Tempest. Lo fa maneggiando con sapienza un testo estremamente valido, con la consueta sensibilità musicale e scenografica, e la scelta felice di un attore virtuoso, in grado di farci sentire tutto il dolore e tutta la ricchezza delle transizioni che tutti noi scegliamo o siamo costretti ad attraversare durante la nostra esistenza. E che non vanno mai semplificate, pena perderne il contenuto profondo, vitale.
L’artista in poche parole: Particolarmente capace di tessere attorno agli attori che sceglie trame di suoni e luci che ne valorizzino presenza e vibrazione, Giorgina Pi unisce ad un preciso gusto estetico una ricerca ed una competenza testuale che le consente di utilizzare i dispositivi scenici come supporti significanti e non come sostituti drammaturgici. Dote rara. A questo si aggiunge l’esperienza di teoria e pratica politica, con un’attenzione reale alla “comunità”.
Prossimi appuntamenti per vederla: 20, 21, 23 settembre/ 23-24-25 ottobre, Angelo Mai, Roma; 25 settembre, “Città delle 100 scale Festival”, Potenza; 17 ottobre, APP, Ascoli Piceno.
Silvia Calderoni
vista in “MDLSX” dei Motus

Lo spettacolo MDLSX, portato in scena per la prima volta nel 2015 dai Motus, è riuscito nell’arco di cinque anni a divenire un classico del teatro indipendente italiano (e non solo). Si tratta di un’opera in grado di creare – come ormai di rado accade – un “prima” e un “dopo”: un prima-di-averla-vista e un dopo-averla-vista.
La sapiente costruzione drammaturgica (che Silvia Calderoni co-firma con Daniela Nicolò), la partitura musicale sempre a fuoco, l’abile utilizzo dei supporti video – non dimostrativi, non fini a se stessi – la cura nella scelta dei costumi e di ogni singolo oggetto di scena, l’interpretazione di una fuoriclasse della scena teatrale internazionale: gli ingredienti ci sono tutti. Ma c’è di più, certo.
C’è una scelta precisa – originale, rischiosa, ma calibrata al millimetro – che è quella di portare in scena un racconto finemente intessuto di riferimenti letterari, filosofici, musicali (Eugenides, Preciado, Butler, Pasolini, Haraway, Talking Heads, Bowie, R.E.M., The Smiths…) e di intrecciarlo, con accuratezza e insieme con mistero, all’intimità della testimonianza autobiografica.
Silvia Calderoni in scena è Calliope/Cal (personaggio originale di Eugenides, ma anche curiosa elisione del suo cognome), ed è stessa, ed è tutti gli irregolari, i non conformi, gli imperdonabili del mondo, cui il mondo non assolve la radicale inassimilabilità.
È il «mostro», nella sua dimensione più dolorosa, ma anche prodigiosa, rivelatoria: “monstrum” dal latino “monere”, ovvero creatura che “mostra”, che ammonisce, che avvisa chi la guarda, chi assiste alla sua manifestazione-avvertimento. Ma di cosa ci avverte la/il protagonista di MDLSX?
Ci avverte che è tempo di cambiare. Di cambiare non solo e non tanto le categorie – si distruggono vecchie categorie per crearne di nuove, talora peggiori, perché fintamente libere – quanto ciò che è a monte di ogni sistema gerarchico: la paura di perdere.
Perdere la faccia, i privilegi, il controllo. I criteri interpretativi della realtà (chi è? Che cos’è? È un uomo? È una donna? Che cos’è un uomo? Che cos’è una donna?). Paura di perdere le risposte, o addirittura scoprire di non averle mai avute.
MDLSX è il viaggio di Calliope – che, non a caso, porta il nome della Musa più celebre, quella della poesia – un viaggio di perdita, di svestizione, e di creazione. Ma è anche il nostro viaggio, non solo perché di quel viaggio siamo testimoni partecipi, ma perché quel viaggio ci riguarda: quella solitudine, quel dolore, quel non sapere, quel desiderio, quella vitalità, quella preghiera («Please, please, plaese, let me get what I want this time»).
Un viaggio di una singola, specifica, persona, che è in realtà molte persone, e che alla fine dello spettacolo è diventata tutte le persone.
È questo il procedere della poesia: un io precisamente situato in un corpo e in un tempo, che mentre crea perde e perde e perde – le parole che non servono al verso, l’eccesso di biografismo, la gabbia dell’attualità. Da questa concatenazione di perdite la poesia nasce, e viene a dirci la verità.
Alla fine il mostro era la Musa. Quella dalla bella voce (kalós+ops), pronta a perdere tutto per cantare un canto vero: «Good times for a change…».
L’artista in poche parole: Silvia Calderoni ha un corpo eroico, nel senso classico del termine: un corpo antico, conflittuale, clamoroso. Segnato dalla potenza e dalla dismisura. In ogni messinscena la sua interpretazione si impone come manifestazione irripetibile, e per questo dolorosa. La si guarda con stupore e con una forma di nostalgia già mentre accade, come davanti ad alcune opere d’arte. Sentendone tutta l’irreplicabilità.
Prossimi appuntamenti per vederla: 26 settembre, con Chroma Keys (Motus), Atelier Sì, Bologna; 15-16 ottobre, Chroma Keys, Festival So Far So Close, Matera; dal 29 ottobre al 1 novembre, MDLSX (Motus), Teatro Bellini, Napoli.
Angela Baraldi
vista in “Love tore us apart” (Santarcangelo), “Riprendiamoci l’estate” (Roma)

Che si esibisca in un omaggio ai Joy Division (accompagnata da Canali e Dal Col), o in una fenomenale serie di cover di Nico, Iggy Pop, Patti Smith (con Diana Tejera, con cui ha creato a Roma la rassegna di successo “Riprendiamoci Trastevere”), o nei brani del suo ultimo, bellissimo, disco Tornano sempre, Angela Baraldi è sempre una garanzia di assalto e di pienezza. Non è possibile andar via da un suo concerto senza sentirsi colmi.
Colmi anzitutto di una voce che dalle profondità arriva alle profondità: la voce di Angela Baraldi è una voce concava, proviene da un avvallamento, da una cisterna segreta, forse da un buco nel mondo. Quando arriva non passa per le orecchie, ma direttamente per gli organi: è nel dentro, in ogni dentro, la sua sede naturale.
Ascoltarla cantare che l’amore ci farà a pezzi (di nuovo e ancora), ci fa davvero sentire a pezzi, eppure grati perché una voce credibile – si crede alla sua voce, come si credeva a quella di Ian Curtis – è lì a testimoniarci chi siamo, e quello che proviamo. Così come le si è riconoscenti per aver messo in parola e in musica stati d’animo francamente difficili da spiegare, come accade nel suo brano “Michimaus” : «Asfaltano le strade/ che vanno al mare/ e asfaltano anche me/ di notte. E aspettano che tu sia solo un po’ distratto/ E aspettano che tu sia solo». Qualcosa che ha a che vedere con la violenza del mondo, e con come la realtà ci si schianti addosso mentre esistiamo…ma come si fa a dirlo? Infatti Angela Baraldi non lo dice, lo canta.
Si potrebbe andare avanti a lungo con le citazioni da “Tornano sempre”, un disco che è anche una raccolta di poesie. Andrebbe fatto perché ad Angela Baraldi va riconosciuto un talento nella scrittura, che troppo spesso passa in secondo piano davanti alla dirompenza delle sue perfomance. Ma Baraldi non è solo una delle poche vere rocker italiane (si contano sulle dita di una mano), è anche una autrice colta e insieme selvaggia, capace di attingere alle fonti e alle memorie più diverse, condensandole in immagini originali, inconsuete, talora enigmatiche.
Aspettiamo con fiducia il suo nuovo lavoro: abbiamo bisogno delle sue visioni, del suo sguardo sghembo sul mondo, del suo coraggio di essere in contatto profondo con le cose di cui nessuno vuole parlare. Il dolore, la solitudine, il fallimento, la voce degli ultimi, la ribellione. La felicità scomposta.
L’artista in poche parole: Angela Baraldi è una poeta di altri tempi – qualche secolo fa l’avremmo vista a tavola con William Blake, o con Arthur Rimbaud – malinconica, sensibile, visionaria. Ma sentirla cantare ne chiarisce la provenienza più antica: Baraldi fa parte di quella schiera di divinità ctonie che regolano i vulcani, i sismi, le maree. Assistere ad un suo concerto è sporgersi sulla camera magmatica della Terra.
Prossimi appuntamenti per vederla: in concerto il 27 settembre, Festival Macinare Cultura, Mulino Mazzone – Monghidoro (BO)