di Giorgia Serughetti
Il rapporto sull’Italia del Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne (GREVIO) ha espresso un giudizio piuttosto netto sul nostro paese. Sono stati fatti degli sforzi a livello politico e normativo, ma il lavoro da fare è ancora lungi dall’essere completato se si vuole davvero affrontare il problema alla radice.
Uno degli aspetti rilevanti è la serie di osservazioni critiche che vengono fatte rispetto alle attività di prevenzione prescritte all’art. 14 della Convenzione, in particolare rispetto alla mancanza di uno sforzo serio, effettivo, all’interno delle scuole, per promuovere la lotta agli stereotipi di genere e l’educazione al rispetto delle differenze.
Come è noto, un percorso era stato avviato, a partire dal famoso comma 16 art. 1 della legge cd. “Buona Scuola” del 2015, che prevedeva l’introduzione “nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”. Ne erano seguite iniziative a livello ministeriale, come il Piano per l’educazione al rispetto (2017), non accompagnate però da modifiche normative capaci di rendere obbligatori questi contenuti in tutti gli istituti. Il risultato è che al ministro Bussetti è bastata una circolare per affondare l’intera barca: una circolare del 2018 che sancisce l’obbligo per le scuole di esonerare da progetti scolastici su materie “sensibili” gli alunni i cui genitori non esprimono il proprio consenso informato.
Che io sappia, i successivi avvicendamenti ai vertici del MIUR non hanno modificato questo stato di cose.
È perciò molto importante che il GREVIO punti l’attenzione su questa questione. Perché proprio sul versante educativo si sta giocando da anni una delle partite più serie e difficili, tra chi intende davvero trasformare la cultura che alimenta la violenza sessista contro le donne e chi invece, pur dichiarando un impegno di facciata contro la violenza, contrasta ogni tentativo di intervenire su quella che è la sua radice profonda: cioè le diseguaglianze tra i generi nelle strutture economiche e sociali, e gli immaginari che le rafforzano e riproducono.
Le insegnanti e dirigenti che promuovono iniziative di educazione alle differenze, al rispetto, alle pari opportunità, si trovano spesso ad affrontare pressioni fortissime perché cancellino queste attività, accusate di fare indottrinamento “gender”. Il rapporto del GREVIO parla espressamente di un “clima intimidatorio” – un clima, aggiungo io, di cui sono responsabili le associazioni e i personaggi della destra politica e religiosa che da anni diffondono disinformazione e manipolano l’opinione pubblica sul tema.
Tanto più problematica è la situazione sul versante dell’educazione sessuale, che sarebbe importante sia per lo sviluppo di una sessualità consapevole, sia per far acquisire a ragazzi e ragazze piena consapevolezza di cosa significa autodeterminazione, cos’è consenso, cos’è violenza. Come abbiamo capito dai dati dell’ultima rilevazione Istat sugli immaginari relativi alla violenza sessuale, non sono pochi gli italiani ancora convinti che solo le donne poco “serie” possano subire uno stupro, o che parte della responsabilità di una donna che subisce violenza stia nel proprio abbigliamento.
Come nota il GREVIO, “sia il Comitato europeo dei diritti sociali sia il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia hanno sottolineato che gli adolescenti dovrebbero avere accesso a informazioni adeguate e obiettive sulle questioni sessuali e riproduttive, tra cui la pianificazione familiare, la contraccezione e la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, come parte del programma scolastico ordinario e fornite senza discriminazioni di alcun tipo. In Italia, il Ministero della Salute e il Ministero dell’Istruzione lavorano dal 2015 alle ‘Linee guida nazionali per l’educazione all’affettività, alla sessualità e alla salute riproduttiva nelle scuole’, seguendo le linee guida dell’OMS sull’educazione sessuale. Tuttavia, la crescente resistenza all’educazione alla sessualità e la stigmatizzazione di chi vi partecipa da parte di alcuni movimenti, spesso incanalata attraverso campagne di disinformazione sui contenuti di tale educazione, hanno fatto sì che questa iniziativa si sia fermata”.
Anche nelle Università l’ostilità verso queste tematiche può farsi sentire, per esempio con la delegittimazione degli studi di genere, o le accuse di indottrinamento rivolte a studiose o studiosi che portano avanti progetti con il territorio.
Proprio in risposta a questi attacchi è nata alcuni mesi fa la rete GIFTS – Rete di studi di Genere, Intersex, Femministi, Transfemministi e sulla Sessualità, che mira a rafforzare l’opposizione ai movimenti anti-gender ma soprattutto a trasformare il mondo della ricerca e dell’università attraverso l’introduzione di contenuti e approcci innovativi su questi temi.
È nata di recente anche l’iniziativa di UNIRE, che mette in rete le università per la promozione di attività di prevenzione e contrasto della violenza contro le donne.
Il dibattito è dunque più che mai aperto e i progetti non mancano – penso anche alla rete Educare alle differenze.
Ma il rapporto del Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa coglie una serie di criticità reali. E fa delle raccomandazioni molto chiare all’Italia:
“a. proseguire gli sforzi per integrare nel sistema educativo l’uguaglianza di genere e l’informazione sulla violenza di genere in tutte le sue forme […], assicurando un’ampia diffusione delle linee guida nazionali sull’educazione al rispetto in tutte le scuole e gli istituti professionali del paese e promuovendo la formazione iniziale e permanente obbligatoria degli insegnanti e di tutto il personale educativo su questi temi; b. sviluppare una serie di indicatori che consentano di misurare le capacità e le competenze degli alunni sui temi menzionati all’articolo 14 della Convenzione di Istanbul e in relazione a tutte le forme di violenza di genere contro le donne; c. finalizzare e attuare le linee guida nazionali per l’educazione all’affettività, alla sessualità e alla salute riproduttiva nelle scuole, quale importante mezzo per introdurre gli alunni ai temi del diritto all’integrità fisica e alla definizione di violenza sessuale di cui all’articolo 36 della Convenzione di Istanbul”.
In questo paese tutti si dichiarano contro la violenza sessista, ma troppi continuano a difendere gli stessi modelli di famiglia e società tradizionali che sono la radice strutturale del problema.
Cos’altro ci serve per concludere una volta per tutte che chi si oppone ai progetti educativi ispirati alla Convenzione di Istanbul è un avversario (e non può essere un alleato) nella battaglia contro tutte le forme di violenza?
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