Ius culturae: qual è il tempo dei diritti?

5601078658_cec394cc61_bdi Giorgia Serughetti

A quanto pare in Italia non è mai il momento giusto per parlare di diritti, di allargamento dei diritti a chi ne è escluso.

Le discussioni di questi giorni sullo ius culturae hanno riaperto l’eterno dibattito che vede contrapposti i grandi temi sociali – il lavoro, la povertà, la tutela dell’ambiente e del territorio – e quelle che vengono derubricate come istanze meramente simboliche o identitarie.

Il Partito Democratico, a conclusione della convention di tre giorni a Bologna, ha fatto ciò che doveva fare da tempo: ha dichiarato il suo pieno impegno per la cittadinanza di chi nasce o cresce in Italia, e così ha voluto segnare una discontinuità rispetto al recente passato in cui questa battaglia è stata abbandonata per calcolo elettorale.

Ma a giudicare dalle reazioni che questa dichiarazione ha scatenato, nemmeno una convention di partito è considerata un momento appropriato per mettere un punto fermo su queste questioni.

In particolare gli alleati di governo hanno sparato a zero, parlando di altre priorità, di distanza dalla realtà, di proposta inopportuna, di una pura prova di forza all’interno della maggioranza. Ed è interessante perché le stesse forze che criticano questa iniziativa non si fanno alcuno scrupolo a mettere in tensione la tenuta della maggioranza su temi di carattere economico, per esempio Quota 100, che Renzi vorrebbe abolire e Di Maio tenere. Dunque sarebbe “meschinità” politico-elettorale quando si tratta di dire una parola chiara sul futuro di circa 200mila giovani nati in Italia da genitori stranieri; non, a quanto pare, se sul piatto ci sono temi pesanti come le pensioni.

Altra cosa interessante è che (quasi) tutti, nella maggioranza, si dicono d’accordo in linea di principio sulla cittadinanza ai nuovi italiani e alle nuove italiane. Ma non ora, non così.

E allora quando? E come? Non verrà mai un tempo in cui la politica italiana potrà dirsi distante dalla contesa elettorale, che è pressante e continua.

I critici hanno posto lo ius culturae in competizione con gli aiuti agli operai dell’Ilva. Ma perché le due battaglie devono essere viste come in conflitto o destinate a escludersi a vicenda?

E inoltre: perché l’estensione della cittadinanza a chi è già cittadino o cittadina di fatto, è vista come una questione solo culturale, o simbolica, e non come un problema, anch’esso, di giustizia sociale?

Non è ora di superare questa visione dei diritti che contrappone le questioni distributive o redistributive alle questioni di riconoscimento di diritti e libertà civili e politiche?

Dare la cittadinanza a ragazzi e ragazze che già vivono nel nostro paese, fanno le stesse scuole dei nostri figli, parlano la stessa lingua, e cercano un futuro qui, con noi, significa rimediare a una grande ingiustizia. Significa far sì che decine di migliaia di ragazzi e ragazze non siano costretti in una condizione subalterna, anche dal punto di vista socio-economico. Far sì che non siano costretti a percepirsi e a essere trattati come cittadini di seconda classe, privi di diritti.

Dire che non è ora il tempo, indica l’assunzione di una gerarchia non tra problemi, ma tra gruppi sociali. C’è chi ha più diritto a che i suoi problemi vengano ascoltati, c’è chi ne ha meno.

E non è diverso da ciò che accade, di continuo, con i temi del sessismo, dell’omofobia, delle discriminazioni di genere e sessuali, della violenza sulle donne. Temi molto importanti, certo, cui dedicare un’iniziativa intorno al 25 novembre, ma che sono lontani dal costituire una priorità. (Prova ne siano i gravi ritardi nell’assegnazione e nello stanziamento delle risorse, che in alcuni territori rischiano di far chiudere i centri antiviolenza e le case rifugio, come rivela in questi giorni l’ultimo rapporto di Action Aid).

È ovvio che è necessaria un’agenda politica capace di rispondere con urgenza alle questioni più pressanti, di cui la crisi Ilva rappresenta un esempio preminente. Ma questo non può, non deve impedire di tenere fermo l’impegno su grandi questioni politiche, come la lotta alle radici strutturali della violenza, o l’allargamento del demos democratico che è in gioco nella battaglia sulla cittadinanza.

Altrimenti l’argomento dell’opportunità del momento appare solo una scusa, una copertura un po’ furbesca per una semplice mancanza di coraggio.

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