di Sara De Simone
«quand’è il caso
mi calo la visiera
e do coltellate di bellezza.»
Jolanda Insana, Fendenti fonici 1982
Quando si ha la fortuna di incontrare un’artista come Eleonora Danco bisogna seguirla. Non come una freccia, che ci indichi la strada, ma come una perturbazione che ci mantenga elettrici e in allarme.
Chi è in cerca di rassicurazioni o anela a piccole proposte – rivoluzioni tollerabili – sarà a disagio con il teatro di Eleonora Danco.
Nessun consiglio, nessuna certezza, nessuna intenzione didascalica nei testi della drammaturga, regista e performer romana, già due anni fa record di incassi al Teatro India con lo spettacolo che ora riporta in scena. Piuttosto una scarica di parole esatte, una catena potente di immagini che lasciano senza fiato perché arrivano ed entrano dappertutto, e fanno venire in mente alcuni versi del grande poeta russo Vladimir Majakovskij:
«Conosco dove hanno di casa il cuore, gli altri.
Dentro il petto, si sa.
Per me invece
è impazzita l’anatomia.
È tutto cuore,
romba dappertutto.»
L’anatomia impazzita di Eleonora Danco romba e vibra sul palcoscenico che è tutto cuore, ma anche frattaglie, fluidi, scarti senza che sia necessaria alcuna esibizione caricata del corpo, né una scenografia dichiarativa: la scena è quasi vuota, essenziale, sei sedie e pochi coni di luce da cui la performer si lascia di volta in volta trafiggere o che attraversa lambendone i margini. Il corpo esploso è il corpo del testo, il linguaggio è quello di una grande autrice che al di fuori, anzi contro ogni intento spiegativo, ogni mistica o sentimentalismo si «cala la visiera e dà coltellate di bellezza».
Uso questi versi di Jolanda Insana – grande outsider della poesia italiana – perché mi pare che per Eleonora Danco il punto sia proprio questo: la bellezza del suo teatro è una bellezza fendente, spietata, allucinatoria, senza speranze eppure anche delicata, curativa, piena di sogni e immaginazioni. Si ride molto, per disperazione ma anche per sincera allegria, si sobbalza sulla sedia per angoscia ma anche per entusiasmo, e non manca nemmeno la tenerezza: la più difficile e pericolosa delle emozioni perché è facile che si trasformi in sentimentalismo. Con Eleonora Danco non accade mai. Se si è riso liberatoriamente per dieci minuti filati ascoltando le mirabolanti peripezie della performer con i più svariati direttori-cialtroni dei teatri italiani, è possibile l’istante dopo aver voglia di piangere per i suoi racconti sulla tomba della madre al cimitero. Tutto si mischia, come nella vita, non c’è un momento giusto solo per ridere o solo per piangere: è questa la verità delle “coltellate di bellezza”, che fanno male ma anche bene, quel “bene” che non persegue alcun intento etico e politico ma è etico e politico di per sé.
Lo vediamo quando davanti agli intellettualismi engagés del direttore teatrale di turno – che si dichiara genericamente «contro la guerra», «contro le bombe», impegnato com’è nel «rinascimento» culturale del Paese (sic!) – la performer (digiuna da due giorni) non ha paura di confessare che in quel momento il suo unico pensiero è pagare l’affitto di casa.
O lo sentiamo fino in fondo quando, stesa a terra, la Danco dichiara senza alcuna enfasi i suoi sentimenti per la persona amata: «Ti amo perché ai funerali rimani te stesso».
Che è come dire: davanti alle infinite difese, ipocrisie, tic che abbiamo a disposizione per affrontare il dolore tu non hai paura di rimanere a contatto con «la cosa in sé».
Si tratta di ciò che Virginia Woolf chiamava «the thing itself» – «la cosa per quella che è» – a cui è possibile mantenersi vicini solo a patto di non riempirla di contenuti o offuscarla con emozioni volute, preparate, consone, già scritte.
Confrontarsi con il dolore «per quello che è» – senza aggiungervi o togliervi nulla – è l’unico modo per lasciare al dolore la sua quota di vitalità. Solo se non è spiegato, se non è forzatamente espresso in un senso o in un altro, se non è postillato, se non è nobilitato, il dolore è cosa viva.
Proprio come l’oggetto del suo amore, anche Eleonora Danco – mentre ci racconta del dolore e della solitudine della scrittura, del tormento dell’ispirazione, delle difficoltà a portare in scena i suoi spettacoli – «rimane se stessa». È per questo che dal suo atto unico si esce pieni di gratitudine, alleggeriti e confortati dalla fatica immane che questa autrice-attrice ha fatto per noi. Si esce perfino felici. E non per il classico lieto fine, ma perché abbiamo un profondo bisogno di artiste e artisti che raccontino il dolore come corpo vero, vivo, vivissimo – tanto vivo da contenere e alludere continuamente anche al suo opposto – al corpo di gioia. Abbiamo bisogno di artisti che proteggano il dolore da qualsiasi commentario, innalzamento, intento sociale o civile. È sociale e civile raccontare «la cosa per quella che è». Eleonora Danco non fa altro che questo, da anni.
dEVERSIVO è in scena al Teatro India fino a domenica 10 novembre
http://www.teatrodiroma.net/doc/5178/deversivo