di Caterina Venturini
“In Italia oggi si parla della campagna solo per raccontarne la distruzione e l’imminente rovina, o per usarla come sfondo romantico e innocente di storie che poco la riguardano,” così scriveva qualche anno fa su Lo Straniero Alice Rohrwacher, in occasione dell’uscita del suo secondo film Le Meraviglie, in cui la regista ricreava il paesaggio rurale della sua infanzia: una zona di confine tra Umbria-Lazio e Toscana.
Proprio da una zona di confine per eccellenza, il Sannio – che si estende fra tre regioni, Abruzzo, Molise e Campania – viene la scrittrice Licia Pizzi che con il suo terzo romanzo, Piena di grazia, e una prosa tesa seppure elusiva, sembra rispondere alla richiesta di Rohrwacher, riportando tutti noi alle brutali radici da cui proveniamo, e a quel passato contadino da cui l’Italia, non solo il Sud Italia della storia, proviene: è una campagna che nulla ha di “innocuo”, sempre citando la regista umbra, e vive/prolifera su rapporti di forza affatto innocenti o romantici, come vorrebbero i depliant turistici quando assicurano l’evasione e il sogno bucolico.
La protagonista di questo romanzo, Grazia, la cui infanzia trascorre “in una moltitudine di gesti senza nome compiuti all’infinito”, con una madre che “cura” qualsiasi comportamento della figlia, perfino le crisi epilettiche scambiate per cattivo carattere, con un ceffone dietro la testa – ci fa immediatamente precipitare nella durezza di un mondo dominato dalle stagioni e da un caldo che come un dolore insistente porta ogni situazione all’estremo e poi la sfalda, la rovina. La disintegra.
L’unico strumento umano per sopravvivere diventa la fatica, attraverso quei lavori “muscolari” che da subito sembrano essere stati affidati alla piccola Grazia come un destino naturale. Laddove la natura è quasi sempre maledizione.
Grazia viene da una famiglia povera; del padre che li ha abbandonati è rimasto solo un “amuleto”: i suoi sformati pantaloni da lavoro appesi dietro la porta. E poi Grazia è brutta, “sgraziata” a dispetto del nome, e analfabeta. Com’è possibile che il figlio del macellaio, l’uomo più ricco del suo paese, possa averla chiesta in sposa? Quel Nuccio che vede ogni volta alla messa della domenica. L’amore, per una ragazza di paese come lei, può essere soltanto l’intensità di uno sguardo in chiesa e un mal di stomaco “colitico”.
Nonostante la povertà dei suoi mezzi, lei penserà a un certo punto, vedendo la sua modesta madre essere avvicinata dal macellaio, di essere stata chissà come “eletta” da quella famiglia, per un motivo misterioso: invece viene scelta proprio perché è l’ultima. L’ultima delle ragazze desiderabili, con tutto quello che si porta dietro un aggettivo come questo tra ragazzi che, come Nuccio, sono “cresciuti con il diritto di essere uomini”.
“Fa a’ bbrava” dice sempre la nonna a Grazia, e Grazia per molto tempo fa la brava, prima nella sua famiglia d’origine e poi in quella acquisita, in cui alleverà maiali. È talmente brava con loro che usa il coltello per dare a quelli malati una morte caritatevole. Eppure ogni notte ha bisogno di respirare in un altro modo, di essere compiutamente sé stessa, allora va nel bosco. E per ogni notte passata ad ascoltare il respiro di creature più simili a lei, Grazia incide una tacca sul tronco di un albero, così che qualcuno si ricordi di lei, almeno lei stessa.
Non la parola, dunque, ma il bosco è il luogo dell’ordine per lei, che non sa scrivere, che non sa dirigere i propri pensieri oltre la rabbia. E allora così separata dagli altri, silenziosa, senza alcun gesto d’amore né dato né preso, si può facilmente dare a lei la colpa se le cose nella casa del macellaio cominciano ad andare male, gli affari, le nascite, le morti. Tutto. Di tutto la colpa è sua, della janara. È lei la strega che fa unguenti nel bosco, che lancia maledizioni, è lei. Solo lei.
Se i romanzi riusciti hanno il merito di sintetizzare in immagini e storie quello che i libri di storia ci raccontano mettendo in fila statistiche e riflessioni, possiamo dire che qui trova compimento naturale e logico la nascita di una strega. Cos’è la strega se non una donna emarginata (perché) strana, diversa, con pochi contatti con il resto del consorzio umano? Una donna che ogni volta, per motivi diversi – a seconda delle proprie coordinate biografiche – non ha trovato un posto certo e ufficiale nel mondo, sia essa una signora o una contadina. E Grazia allora cos’è? Cos’è una donna che non ha nulla di quello che è comunemente inteso come femminile, neppure la paura? E come può definirsi lei stessa se non ha neppure una parola che lo faccia al posto suo?
Grazia è immersa in un tempo indolente come certe giornate afose, un tempo che non spiega nulla, ma anzi risospinge indietro verso cose mai comprese, restate lì, appese invece, impiccate a un qualche albero che ora neppure si riesce più a ritrovare in quella “valle inclemente”.
L’ordine degli umani, d’altra parte, è così ingiusto. “Ogni cosa fuori dal proprio posto.” Come si fa a capire se è Dio o il Demonio? Si chiede Grazia a proposito di certe emozioni forti che prova, senza trovare risposta, se non nei doveri che ogni giorno quotidianamente va ad espletare. E che sono i lavori di una campagna pre-industriale, una campagna che così come si proponeva Rohrwacher nei suoi film (in cui invece lo sradicamento contadino è già avvenuto), non è mai filtrata da uno sguardo sentimentale, cittadino, urbano, ma è intensamente e pre-logicamente sentita da chi ci è nata, Grazia appunto, che ci è da sempre vissuta e aggrovigliata dentro. Allora gli animali non sono “da compagnia” come in città ma solo strumenti di lavoro. E se non “funzionano” si prendono a calci, perché ne andrà del pane quotidiano. È la “linea di sopruso” che anche Grazia segue, non avendo mai conosciuto altro che quella.
Piena di grazia dialoga con il nostro passato contadino e con quegli autori che meglio lo hanno inteso: penso ai primi romanzi di Pirandello, a Verga ovviamente, ma soprattutto a Federigo Tozzi e alla sua campagna come metafora dell’irrazionalità delle cose. La cosa più sorprendente, a un certo punto, è stata invece venire a sapere che la prima ispirazione di questo libro è venuta a Licia Pizzi leggendo la storia di una serial killer norvegese-americana, Belle Gunness, vissuta in Indiana nel secondo Ottocento e morta (forse) in un incendio appiccato da lei stessa nel 1908 e che uccise le sue tre figlie. In seguito a quell’incendio furono trovanti sotto le macerie della casa anche altri corpi, seppelliti precedentemente, tutte vittime di Belle: donna dal fisico forte, amata più dai suoi datori di lavoro che dai suoi coetanei. Come Grazia.
Il romanzo di Licia Pizzi tuttavia prosegue poi in modo completamente diverso, ma è singolare notare come l’autrice si sia sentita a proprio agio tra il sud isolato e invincibile delle proprie memorie d’infanzia e la desolazione e il degrado di una fattoria nell’Indiana, comprata disonestamente da una donna trasformata in un’omicida seriale, probabilmente anche da una violenza subita mentre era in incinta, quando viveva ancora in Norvegia. E non si può non considerare che anche in Piena di grazia c’è una sorta di profezia che si (auto)avvera, di morte, di sciagura, di ignoranza. Quanto è angusto, inesistente quasi, lo spazio di manovra consentito quando si è poveri e analfabeti? Ma invece di essere considerate vittime, il mondo fa ai cosiddetti “ultimi” un ultimo, appunto, tragico regalo: li investe del ruolo di carnefici. Così è stato deciso per Grazia. E così sarà. Eppure nel suo sguardo, ha cominciato a brillare da qualche tempo, il profilo duro della montagna che ha davanti. Riuscirà a superarla e a lasciarsi alle spalle il suo passato? Le sue radici? La sua identità.
Questa domanda rimane, insieme ad altre, inevasa e quando si chiude il libro, su una bella notizia che non fa altro che farci sprofondare ancora più giù perché non siamo più pronti ad accoglierla a quel punto, siamo già oltre, allora ci accorgiamo che quello che abbiamo letto non è un libro delizioso, come definiva Marguerite Duras i libri “senza oscurità, senza silenzio, in altre parole senza un vero autore.” E infatti con questo libro un’autrice è nata: Licia Pizzi.